Viaggio veloce

“Le otto, le otto…”

Marco stava lì già dalla sera, in pratica da parecchie ore, non si ricordava da quanto. Sapeva di stare dalla parte fumatori di un bar su una nave che lo avrebbe riportato a casa. Era partito da Civitavecchia alle due diretto verso Olbia, dopo una breve vacanza estiva in Abruzzo che lo aveva portato a conoscere di persona una ragazza incontrata in internet.
Non sapeva che ora era, non aveva l’orologio ed il tempo era scandito solo dal leggero russare del grassone rubizzo che gli era davanti, sdraiato indebitamente sui divanetti.
Marco leggeva parole comiche che lo aiutavano a passare la notte. Vicino a lui un cinquantenne disteso sui divani e sotto una copertina gialla; con due stivali di pelle marrone in piedi vicino alla testa.
Più in là l’ubriacone, e più lontano il tavolo del bar con un barista adagiato sulle inutili chiacchiere che scambiava con un passeggero insonne quanto lui.
Fuori dalla finestra il mare, scurissimo, si confondeva con il cielo, stellato all’inverosimile e solo in parte visibile per le luci della nave.
Marco stava bene, gli girava un po’ la testa forse per il sonno mancato, ma per il resto stava discretamente.
Sapeva, per precedenti passeggiate, che dall’altra parte della nave brillava la luna con il suo tappeto d’argento.
Le parole correvano sotto i suoi occhi come soffi di vento tiepido. Frusciavano sotto i suoi pensieri assorti come pesciolini neri in un mare bianco.
L’assenza di riferimento temporale era trascurabile nella visione d’insieme. Certo, trascurabile fino al punto in cui Marco alzò gli occhi e chiese l’ora ad un uomo canuto immerso in una pipa. L’uomo, guardò distrattamente l’orologio e rispose che erano le otto. Marco pensò di essersi addormentato e di stare sognando, ma il mondo intorno era troppo reale perché potesse essere un sogno. Credette poi di aver sentito male, forse l’orologio dell’uomo aveva perso la sua normale corsa dietro i secondi. Si, fu sicuro di questo ma cominciò a sentirsi a disagio, tremendamente a disagio, e una stupidaggine di quel genere non si meritava proprio tutta la sua attenzione. Si alzò, si avvicinò ad una ragazza mora e le fece la stessa domanda: «Scusa, che ora è?»
Lei lo guardò con aria assonnata e gli disse «Sono le otto!»
Marco si cominciò a sentire a disagio sul serio, non più un incredula voglia di aver sentito male, ma una netta paura di aver sentito dannatamente bene.
«Scusa, come hai detto? Che ora è?»
«Le otto!» ripeté a voce più alta la ragazza, sempre nel suo tono scontato.
Nella testa di Marco il mal di testa esplose come una granata in una cava polverosa. Non potevano essere le otto, no, c’era qualche errore nel sistema generale. Fuori c’era buio, il mare era nerissimo, e i vetri riflettevano l’interno del bar.
Si immerse nelle sue riflessioni, forse troppo.
Si girò dall’altra parte e quello che vide non era la luna, ma un altro astro troppo luminoso per essere la luna, con raggi troppo penetranti perché potessero essere lunari. Si alzò, andò alla porta che lo conduceva sul ponte esterno e capì: avevano pitturato i vetri di blu scuro. Ma perché? Chi poteva essere stato a decidere di dipingere le vetrate obbligando alla luce artificiale tutto il giorno. No, così non poteva essere! Infatti Marco si era addormentato un poco e quando si svegliò si trovò seduto vicino alla ragazza nella mattina più notturna di tutta la sua vita.
La ragazza che gli era vicino spalancò gli occhi e disse, rapita fra sé e sé: «Le otto, le otto…», avendo solo in quel momento compreso il mistero che avvolgeva l’atmosfera, apparentemente normale, della nave.
Poi sollevò due grandissimi occhi scuri verso di lui e gli disse: «Ma il cielo è stellato come se fosse notte!»
Lui rispose: «Possibile che nessuno se ne accorga?»
«Dormono tutti, troppo presi dalla normalità che non si accorgono di quello che ci sta accadendo. Vedi le stelle, è notte e l’uomo normale dorme. Non si preoccupa di altro» meditò lei senza badare se stava parlando o meno, dondolando la testa come a sottolineare i suoi pensieri.
Lui la osservò, era alta, magra, bella, con dei vestiti elasticizzati e una mantellina di plastica verde, le unghie dei piedi con smalto celeste.
E più i suoi occhi si inoltravano sul corpo di lei più lei entrava nel suo cuore, ma non c’era motivo per tutto quello, in quella situazione irreale in cui il tempo era andato avanti e la notte no.


ll risveglio
Si sentirono dei rumori sulle scale, un bambino entrò nel bar e chiese alla mamma: «Ma quanto dobbiamo dormire per fare giorno?»
La madre lo guardò e rispose con una scrollata di capo molto eloquente. Si avvicinò al bar e chiese un «cappuccio macchiato freddo» ed una spiegazione che il barista non seppe dare. La madre fece finta di capire per non spaventare il bambino ed il barista abbozzò una maschera di sorriso.
Marco si alzò e disse alla ragazza che andava fuori. Lei lo seguì, ma insieme furono ostacolati da un richiamo del barista che li avvertiva che non si poteva uscire sul ponte.
Attraverso un vetro sferzato di salsedine si misero a guardare la luna, ondeggiante per tutta quella nottata che sembrava eterna.
Uno dopo l’altro tutti i passeggeri si alzarono dal loro sonno sempre più leggero. Qualcuno aprì gli occhi, vide che era ancora notte e li richiuse.
Nessuno si accorse però di una cosa, all’apparenza trascurabile, ma in realtà una delle chiavi per risolvere il mistero: la nave non ondeggiava in modo regolare.
Il bar si riempì di una folla assetata, affamata e stordita. Qualcuno chiese al barista come poteva essere ancora notte e lui rispose a tutti nello stesso modo smarrito.
«Secondo me lui sa» disse un ragazzo di Roma ad un suo amico. E questa voce si diffuse a macchia d’olio. Dopo pochissimo tempo tutti sospettavano del barista e di tutti quelli che avevano lo stemma della compagnia di traghetti in una targhetta di plastica rettangolare sulla camicia.
Nei minuti successivi la camera si riempì di sguardi sospettosi.
Marco, preso un po’ di coraggio, parlò ad alta voce: «Scusate, penso di essere stato uno dei primi ad accorgersi che qualcosa non va. Quindi vorrei dire la mia.»
Nella camera si fece un silenzio d’attesa elettricamente trepidante.
«Secondo me la risposta alle vostre domande si trova in un luogo inaccessibile» puntò il dito verso la porta chiusa che portava sul ponte. «Si trova la fuori!»
Un mormorio sottilissimo coprì ogni cosa come una leggera brezza. La gente aveva paura di sapere, ma aveva anche bisogno di rendersi conto di quanto stava vivendo.
Una donna di quarant’anni si avvicinò alla porta e provò ad aprirla, ignorando le urla del personale dell’equipaggio, ma la porta era troppo resistente per la forza della signora appena svegliata.

La risposta

Un mormorio sottilissimo coprì ogni cosa come una leggera brezza. La gente aveva paura di sapere, ma aveva anche bisogno di rendersi conto di quanto stava vivendo.
Una donna di quarant’anni si avvicinò alla porta e provò ad aprirla, ignorando le urla del personale dell’equipaggio, ma la porta era troppo resistente per la forza della signora appena svegliata.
«Fermi dove siete!» urlò una voce nei microfoni: era il capitano. Poi proseguì più calmo, ma sempre energicamente «Se aprite quella porta morirete tutti! Il vento vi spazzerebbe via, facendovi cadere a terra e sbattere gli uni contro gli altri e contro i tavolini!»
«Vogliamo una spiegazione!» echeggiò tuonante in fondo alla stanza.
«Non potete trattarci così!» fu il fulmine dietro cui si scatenò la ribellione dei passeggeri, giunti alle mani con l’equipaggio sempre più muto e incrudelito.
«Va bene, spiegherò tutto!» si arrese il capitano «Se guardate là fuori vi renderete conto che non stiamo più nel Mediterraneo!».
Dai finestrini, infatti giunse l’immagine di una città illuminata, una città con un immensa statua.
«Questo viaggio era un esperimento, già provato da vari anni, prima su animali e poi su cavie consapevoli, ma mai su una massa, per di più ignara. È un esperimento per testare come i passeggeri si comportano di fronte ai K79-VI, nuovi motori molto più potenti!»
Lo smarrimento sostituì la rabbia negli animi dei passeggeri.
«Voi avete dormito, e quindi l’esperimento è riuscito!»
I passeggeri persero l’uso della parola. Solo una signora piuttosto anziana disse: «Ma mia sorella mia aspetta a mezzogiorno ad Olbia»
Un’ombra si dipinse sulla porta a vetro opaco del corridoio la maniglia si abbassò ed entrò il capitano: «Ci sarà signora!» disse sorridente: «il vostro tempo non sarà perso!»
Un bambino cominciò a battere le mani, prima che la mamma lo fermasse un altro bambino lo seguì, poi altri tre, poi uno un po’ più grande, poi i tredicenni, quattordicenni, Marco e la sua compagna di viaggio, in breve la camera fu riempita di applausi.
Il capitano, guardando il barista sorridente «Champagne per tutti, Alfredo!»
Il sole, nel viaggio di ritorno, saltò fuori dall’acqua ed il cielo diventò azzurro lucente in qualche minuto.

Epilogo

Il giorno dopo (poche ore dopo per la nave), al porto di Olbia, nel caffè d’angolo del porto, una signora piuttosto anziana, in mezzo ad una gran folla vociante, raccontò l’avventura vissuta alla sorella che, agitando il capo (un po’ anche per il Parkinson) l’assecondò.

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