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Figli del buio

Figli del buio
Questi amorevoli notturni dissacrarono le mura della mia libertà.

Ed ecco come avvenne.

Non mi ero ancora assopito come ogni fresco pomeriggio a quell’ora, e ascoltavo incuriosito la falce continua e ripetuta dei suoni che venivano dalla strada e dalle tendine della mia finestra. Coraggiose a coprirmi da un sole accecante di calore.

Ma non era l’atmosfera di bagliori naturali ancora non giunti ai miei occhi che mi impediva il sonno, ma qualcosa che da giorni mi tormentava e che solo adesso il mio istinto di comprensione riusciva, meno distrattamente, a toccare con mano.

Con la mano dei miei pensieri incerti e, a questo punto della mia vita, intimoriti dall’ipotesi di una venuta non declamata dall’impressione di sentirsi soli ed eterni in quest’universo labile di subconsci ma rassicurante di paure terrene, tentavo nobilmente di non distogliere lo sguardo dalle alate creature, forse figlie di una speranza, forse fino a quel giorno inarrivabile.

Me stesso forzava l’immagine di sgretolare con violenza la sottile ma consistente impressione che tutto ciò, che tutto ciò che la madrepatria delle mie sensazioni in quegli istanti di luce calda teneva saldamente stretta nelle mani della giustizia della mia anima, fosse figlio illegittimo di un vuoto quasi assoluto, o più semplicemente di idee distorte dalla stanchezza di quei giorni, oppure, ancor più miseramente, che fosse

qualcosa di inspiegabilmente oscuro…

Ma non capivo davvero cos’era. Pur cimentandomi nella lotta labile contro il sonno, che comunque sarebbe venuto più tardi. Quasi verso sera. E non mi avrebbe preso, ma solo stordito. Forse per annebbiare i sensi di una mente che voleva farsi credere distorta e dolcemente perversa nell’auto- distruggersi. Perché questo avrebbe potuto accadere, se non fosse stato il sole così caldo e il tramonto così vicino.

Il cielo che appena appena verdeggiava rapiva tutta la mia attenzione, ogni volta che lento mi giravo verso quella finestra. E distrattamente immaginavo dipinti attraverso un flusso di coscienza improvviso ma controllato rapidamente dalla mia immaginazione…chissà, forse facevo tutto questo per capire quella sensazione di torpore che in quel giorno, in maniera più forte rispetto a quelli precedenti, stava acclamando la pazienza dell’osceno signor governatore del mio cervello.

Apparentemente distrutto da questa baraonda di vita senza respiro.

E pensavo a due grossi alberi importanti, colorati di un verde forte e robusto che psicanalizzasse l’opera una volta giunta al termine. Sormontati da un cielo enorme nel suo piccolo e triste pallore sereno, macchiato, o forse scheggiato, da nuvole graffiate di un verticale e curioso bianco, erano gli edifici che parevan case vecchie o chiese.

Maestosa per le dimensioni era infatti la croce di una di queste che cominciava una triangolata serie di abitati, all’insaputa del vento, che, straniero, di tanto in tanto passava, lasciando una firma qua e là, nel cielo più lontano. E più scuro, anche se a tratti protagonista dell’occhio che guardava, e che, infermo, risucchiava gli spiriti di una valle mai disegnata. Esso ondeggiava come il vento ma non rilasciava commenti né parola alcuna, proprio come il pozzo di un piccolo bosco di un autunno lievemente terso di immagini inconsuete…e sospirate.

Pur essendo distante dal sentiero morbido e rossastro che pian piano veniva fuori dalla mia mente, questo immane contenitore di visioni si incamminò d’un tratto verso un punto definito dell’orizzonte a sé frontale, diventando sempre più piccolo, come se volesse lasciare il posto a qualche altro sogno raffigurato.

Quel sentiero ,appunto, richiamava le voci gridate di vecchi bastoni conficcati nel terreno in salita, e disposti in un ordine disordinato come se volessero celebrare un antico rito da secoli rimasto incompiuto. E adesso quella serie naturale di grezzi paletti sembrava intenzionata, per come geograficamente disposta, a terminare la pratica di quell’ usanza. Forse sacrificando qualche filo di erba sottile.

Perché solo questa c’era alle loro basi, un cumulo quasi arricciato di bassa erba che sembrava voler crescere solo se osservata da qualcuno.

E non era un granchè verde, perciò non dava lei il colore al cielo della realtà che nella realtà i miei occhi non vedevano più, ormai assetati di immaginazione e rapiti dall’incostante fascino di ciò che si creava.

Non badai mai a questo, non per timore di svegliarmi e far morire il tutto, ma più semplicemente perché non avevo più forza terrena, e il mio corpo non era mai parso così pesante e insollevabile. Ciò lo sapevo per certo, ma non avrei mai saputo dimostrarlo, a chi, un giorno ancora non sorto, avesse chiesto di me, di quell’uomo dormiente…

E quadro dopo quadro persi la capacità di contarli, ma poca importanza aveva la scienza in questo grande sogno. Il più grande che avessi costruito in tutta la mia vita, anche perché quando tutto sarebbe finito, probabilmente, non sarei stato più capace di sognare così…

Il sentiero, al suo principio dritto e fiero della sua semplicità, cominciava a curvarsi teneramente verso una leggera discesa, non completamente visibile. Ma si poteva ipotizzare che questa cadesse in un calmo e piatto lago che tante favole hanno rapito per farsi pubblicità e sul quale tante principesse, in epoche passate, si erano sicuramente specchiate dopo aver visto i propri cavalieri uscire bellissimi dall’acqua, incredibilmente splendente, per poi vestire le lucenti armature, corazzarsi e salire sui neri e robusti cavalli, dal pelo liscio e fluido e dalla fumante velocità. Al cenno sicuro del principe, solo con le sue meravigliose ancelle, sarebbero partiti regali e ben addestrati questi cavalieri, forse alla ricerca di qualche anello o smeraldo oppure alla salvezza di gente bisognosa del loro aiuto.

Sembrava tutto così immortale…

Però questa era un’ ipotesi, affascinante, poetica e verosimile trattandosi di un frammento di sogno, ma pur sempre un’ ipotesi, dato che non vidi chiaramente il termine di quella piccola discesa.

Poteva trattarsi di un campo incolto di colori scuri, per la vivacità del giallo screziante e pressante delle alte spighe distese illimitatamente sul campo, ma potei notare, una volta dileguata la nuvola, una quercia orgogliosa, e tanti figli del suo marrone distorto, ma saggio e paziente. Perché poteva trovarsi lì da secoli.

Al lato di questo pezzo spontaneo di un istante naturale, scorgevo un laborioso tempio, che pareva essere significato di religioni complesse. Esso era costruito stranamente: aveva una grassa palla di marmo al centro di una immensa targa ferrata situata al di sopra, forse a rappresentare il tetto di qualcosa, il limite delle fedeltà, la non obbiettività di certe credenze, la dimostrazione dell’ignorante esistenza di un cumulo futile e malsano di polvere chiamata razzismo, o forse il sesso di significati e parole che frantumerebbero dogmi umani.

Ma la questione era la mia distanza da quel tempio. Perciò sentivo di dovermi avvicinare, e mentre lo facevo si delineava maestosa e larga una strada ,fino ad allora inesistente, elegantemente decorata da sfarzi e gioielli, oltre che da un lungo e prezioso tappeto color rosso fiamma. Come se mi volesse condurre alla verità.

Ma nel momento in cui ero quasi giunto al platinato portone di cui solo allora potevo ammirarne la bellezza, tutto mi crollò tragicamente davanti.

E persi il respiro.

Pensavo che non sarei stato degno, e quasi mi convinsi.

Fino a quando non intravidi, attraverso la fumosa cortina di pullulante polvere, la grossa palla di marmo, ai miei occhi sempre più ben levigata, montata da un essere impreciso. E sottile.

Mi avvicinavo cautamente, tentando di avanzare circondando il tempio caduto. Tossivo insistentemente, ma non mi importava.

Dovevo assolutamente raggiungere quell’essere, a costo di inciampare, farmi male e poi rialzarmi per rincorrerlo nel caso fosse fuggito.

E poi mi pareva la prima forma di vita incontrata fino a quel momento, e può capitare ogni tanto all’uomo di sentire il bisogno di compagnia, e cercare di soddisfarlo scambiando anche solo poche parole. Perciò continuavo a circumnavigare quello che prima era un sacrosanto e dubbioso luogo forse di preghiera, o probabilmente di ritrovo dei vari nulla e vuoti del mondo, visto che non c’era nessuno sotto o sopra le chiare macerie.

Nessuno, tranne ovviamente quell’essere che ancora non vedevo palesemente, ma che mi avrebbe chiarito tutti i sospetti una volta raggiunto.

E non tentai di avvisarlo della mia presenza, né di attirare la sua attenzione, per non spaventarlo, perché , per quel poco che cominciavo a vedere, mi sembrava piuttosto turbato. Ma poteva essere un’impressione. Poteva.

“Chi sei?” Chiesi con tono sospirato.

Ma lui mi fissava, ed io, che nella sua fisicità osservavo soltanto stranezze, avvicinai i miei stanchi passi ancora un po’.

“Non mi hai sentito?” Ti ho chiesto chi sei.”

Passarono attimi e lo vidi quasi del tutto, era splendidamente particolare ma mi guardava spaventato, come se rappresentassi per lui una estrema minaccia alla sua quiete.

Allora io: “Non spaventarti, te ne prego. Vorrei solo parlare un po’…ti va?”

Gli istanti che sembravano interminabili minuti si susseguivano con un’inspiegabile costanza mentre ciò che rimaneva della cortina fumosa era già un pezzo sopra le nostre teste. Solitaria era ormai la polvere che proteggeva le macerie sulle quali adesso mi fermavo, e da lì riuscivo a guardarlo finalmente per intero. Senza ostacoli.

Non avanzavo più, non volevo rischiare di farlo scappare. Lui appariva così indifeso,

sostenuto da un corpo estremamente esile. La sua testa sembrava somigliare ad un foglio di carta rigida, e le sue braccia erano rigidi stecchini ingigantiti. Come nei disegni dei bimbi felici. E le gambe, oh signore di questo sogno, non avevo mai visto nulla di simile: si sarebbero potute distendere per svariati metri, se solo avessero voluto, e apparivano in una strana posizione rispetto alla schiena, sempre che questa fosse umanamente incolonnata. La gamba sinistra era dislocata in un evidente intreccio, ponendo il ginocchio accanto alla coscia interna ed il resto, fino al piede, era una curvatura ondeggiante rivolta in su. E perfettamente disegnata. Come la gamba destra, che garantiva a quell’esile personaggio un saldo, nonché enorme, appoggio. Infatti questa aveva una netta e legnosa perpendicolarità, che terminava sulla parte più bassa di un bianco sasso situato una trentina di centimetri più indietro.

Per finire, quel grande cappello da nobiluomo inglese, ma che gli dava l’aria d’essere un timido mago, talmente era alto. I suoi occhi tondi e grigi mi fissavano.

“Puoi rispondermi, non avere paura di me…non temere.” Cercai quasi invano di strappargli delle parole, ma forse non mi capiva, o addirittura non parlava affatto.

Ma se così fosse stato mi sarei sentito distruggere dal dolore di non poterlo aiutare.

“Mi capisci? Parli la mia lingua?”

“No, ma tu parli la mia.”

Continuava a fissarmi.

Quando vidi aprire la porta della sua voce mi sentii sollevato, ma dopo aver ascoltato ciò che aveva appena detto non riuscii a capirne il senso. Forse perché ancora troppo preso dall’idea di aver incontrato qualcuno, ma non potei esser certo che fosse un buon personaggio. Perciò:

“Non riesco a crederci! Allora tu mi capisci? Non sai cosa significa per me…finalmente posso parlare con qualcuno. Sempre che tu ne abbia voglia.”

Mi fissava, e non rispondeva.

“Però aspetta, se tu mi hai risposto hai capito cosa dicevo. E dunque capisci la mia lingua, perciò sai anche parlarla. Non credi? “chiesi mescolando una investigativa ironia con l’incertezza di non saper capire.

“Ascolta”- adesso mi facevo più calmo, e il tono risuonava serioso in quella valle simile ad un recipiente di lacrime –“Io vorrei solo che tu mi dicessi chi sei, e non sono arrivato fin qui per fare una guerra. Tantomeno contro di te. E non so chi tu sia. Quindi sta tranquillo, non temermi, e soprattutto cerca di venirmi incontro…se puoi, ed in qualche modo te ne sarò grato…io non so davvero dove mi trovo. Né cos’è tutto ciò. Devi credermi, io sto sognando.”

Aspettavo una qualsiasi reazione. Avrei potuto tacere in eterno, e ricambiare l’eterna occhiata se non avessi avuto una risposta convincente.

“Certo che sei curioso…non potrei giurarci ma credo tu abbia avanzato l’ipotesi che io abbia paura di te. Vero? No, aspetta. Non rispondermi. Io ero solo dubbioso, perché incapace di classificarti tra le specie che conosco, e ho lasciato che parlassi.

Ma adesso ascolta me, misero uomo incosciente. Tu, che nella tua mente mi hai descritto come uno squallido attaccapanni privo di sensazioni, tu, misero e superbo indifferente, tu, che vuoi un po’ di compagnia adesso che hai trovato un “essere” con cui parlare, tu…non sai niente…

Mi trovo qui da secoli e il mio compito è quello di osservare le mansuete litanie che vengono fuori dai cervelli di tutti gli uomini della Terra, e regolare le disfunzioni a chi come te reputa se stesso un eletto, ma soprattutto io cerco di fermare a tutti i costi la divagante e ripugnante intelligenza che sconfina spesso nel non sapere.

È il mio compito.

Io sono… l ’ ”Ignoranza”.”

Volò via.

Un pesante ed indescrivibile torpore attraversò la mia anima.

Ero sfinito. Ma non la salutai. Cercai di riposare.

E mi distesi su un furtivo raggio di sole, sceso per specchiarsi nei limiti della mia memoria. Per farmi ricordare.

Questi amorevoli notturni, che così chiamo nonostante non fosse stata la notte a catturarli e a gettarmeli addosso con un dolce violento inaudito, mi impedirono di sognare ancora poeticherie. Non conoscevo i motivi, ma avrei potuto prevedere qualcosa di disarmante al risveglio.

Ritornai, infatti, alla realtà che odiavo, e da cui ero fuggito per consolarmi di esser solo.

E tutto avrei pensato, eccetto di vedere la mia vita con occhi più belli. Da quel momento in poi. Ma così fu…

E venne la luce.

Voi che leggete fantasie e creatività, e voi altri che assaporate con gusto l’estro e la malinconica dolcezza di certi assurdi pensieri, e voi che succhiate il midollo della vita attraverso la poesia, non spaventatevi se vi siete immedesimati più del dovuto in quel giorno grasso di poesia che ho tentato di raccontarvi. Non fatevi cogliere dal timore di controllare le vostre menti, nei momenti strani ed inspiegabili della vostra vita. Quando anche la musica è un urlo assente.

Non fatevi abbattere da queste paure,

perché io ho continuato a sognare anche dopo quel pomeriggio di follia, solo che i sogni che da allora faccio non hanno più una dignità, sono freddi, apocrifi e sempre più miseri nell’essenza. Non ho più il mio mondo onirico, e se mai ce l’ho avuto è scomparso.

Addio morte.

Addio vita.

Attirami luce! Me ne andrò nel buio,

e raggiungerò i suoi figli, scomparsi per sempre nell’olimpo dei sognanti.

Autore: Giovanni Palese
Titolo:  Figli del buio
E-mail:  [email protected]

L’opera non è mai stata pubblicata.