Notizia su Tommaso Dell’Era
Insegna la sociologia della letteratura che il periodo di maggior rischio, per la sopravvivenza storica di un autore, è quello dei decenni immediatamente successivi alla sua morte. Ma c’è chi non corre rischi del genere, per la malinconica ragione che l’oblio non può colpire chi è già comunque ignorato.
A qualcuno, però, inopinatamente la fortuna arride post mortem. E’ accaduto a Tomasi di Lampedusa, Morselli, Satta: ben più povera sarebbe, senza di loro, la letteratura italiana del secondo Novecento. Un po’ più povera forse continua ad esserlo, senza Tommaso Dell’Era.
Qualche cenno biografico su questo scrittore. Nasce a Bari nel 1927, trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Modena, poi fa rientro alla città di origine; erano gli anni della guerra, perde il padre. Concluso il liceo cerca un impiego, lo trova al Genio civile; nel frattempo studia all’università, si laurea in lettere con Mario Sansone. Nessun evento di rilievo anche dopo: il matrimonio, i figli, il lavoro; l’età che avanza, i nipoti, la pensione. Nel 1994 si manifesta il male che lo porterà via, tre anni dopo. Funerali laici, per viatico le note del K477 di Mozart (“il più bel canto che mai la morte abbia ascoltato”, l’aveva definito in un suo libro).
I suoi libri, dunque. Quattro pubblicati in vita, tutti da Schena di Fasano (www.schenaeditore.com): “Un ficcanaso”, 1969; “I cari baresi”, 1971; “e Mozart”, 1991; “I cavalieri di san Nicola”, 1992.
“Un ficcanaso” esce nel 1969, l’autore ha quarantadue anni: alquanto tardiva come prova di esordio, se tale realmente fosse. Di fatto Dell’Era aveva incominciato a scrivere assai prima: versi soprattutto, cui man mano s’erano andate affiancando esperienze narrative; forse intorno ai trentacinque anni, tacque il poeta, ne prese definitivamente il posto lo scrittore. Dell’Era fu critico severo di sé stesso, salvò poco della produzione giovanile in prosa e nulla di quella poetica (ma Attilio Momigliano aveva apprezzato i suoi versi).
Prima opera della maturità, “Un ficcanaso”, dunque, piuttosto che opera prima. E’ il racconto di un viaggio compiuto dall’autore, due concitate settimane in giro per l’Italia, piene zeppe di luoghi, incontri, emozioni, quasi per trafugare al tempo la maggior vita possibile. Perché Dell’Era è conscio della sua finitezza ma vuole affermarla sino in fondo, altro non chiede che di riempire di vita il mucchio d’anni avuto in sorte:
Felice del guazzabuglio di sensi che mi fanno amare questa vitaccia; questa vitaccia che, mettila come vuoi, è mia e non mollo: cicca fra miriadi di falò, ma cicca che io solo aspiro.
L’opera, estranea com’era all’industria letteraria, passò quasi inosservata. I pochi che la lessero furono concordi nell’apprezzarla, Giancarlo Vigorelli la salutò come uno dei migliori libri del momento, poi tutto finì lì.
Dell’Era aveva in preparazione un volume di racconti – ne fa anche cenno in “Un ficcanaso” – ma dentro gli urgeva un nuovo lavoro: doveva narrare della sua terra, scrisse “I cari baresi”.
Apparso nel 1971, il libro è un indulgente pamphlet, ove l’autore “castigat ridendo mores” dei suoi concittadini (e, in controluce, quelli della borghesia nazionale dell’epoca). Ma è anche un’opera di forte sensibilità antropologica:
Il barese non è un meridionale verace. Ha del sud i riflessi svegli, la bocca aperta alla risata e la tasca alla bisboccia, il culto dell’amicizia, della famiglia, dei morti; ma non ha del sud il languore, l’ira sanguigna, il genio doloroso. Ha del nord l’intraprendenza, l’arrivismo, l’effettiva realtà delle cose; ma del nord non ha la frigidità dei rapporti umani. E’ progressista e conservatore, a metà strada fra il pragmatismo occidentale e la saggezza orientale.
Come “Un ficcanaso”, anche “I cari baresi” ebbe pochi lettori; con la differenza che, dato l’argomento locale (sfuggiva il respiro più ampio), suscitò sì un minimo di interesse, ma solo nella città.
Tommaso Dell’Era aveva dato il meglio di sé in quei due libri, ma per uscire dall’anonimato questo non bastava. Capì, toccò con mano che il mercato editoriale è appunto un mercato, e lui non era fatto per produrre merce. Furono anni di silenziosa amarezza, che spesso traspare nelle opere di quel periodo.
Ma c’era il conforto della musica. Che non era solo un hobby, e nemmeno una passione: era la sua stessa strada, lo sarebbe stata se la vita non l’avesse lasciato orfano a sedici anni. Adesso dunque avrebbe scritto di musica – un libro su Mozart. Furono anni di studio, letture sterminate, tutto ciò che riguardasse il musicista e il suo tempo. Anni di viaggi, ricognizioni nei luoghi mozartiani, dai più noti ai più impensati. Nel 1991 esce “e Mozart”.
Una congiunzione all’inizio del titolo, minuscola per di più, richiama due termini da congiungere. Ma quale il primo? Lo definisce l’autore, nella quarta di copertina:
Ah, il Settecento. Una musica l’Europa. Ai punti cardinali: Londra Napoli Parigi Pietroburgo, nell’infinità dei punti intermedi.
Cantavan tutti: i mercanti nelle contrattazioni, le servette nell’accapigliarsi; i penitenti nella confessione, i preti nell’assoluzione; il boia sul palco, il condannato sul ceppo. E cantava l’estinto nel mortorio.
Sonavan tutti: l’arpa o il colascione, il cembalo o il putipù. In cantina e sui tetti, nei lupanari e sui sagrati. Nelle regge. Gli stessi sovrani, fra una successione e una spartizione, staccavano dalla panoplia il loro strumento, trillavano arie fra un’allocuzione e un’orazione: da Sua Maestà Prussiana, Fritz flautista, a Sua Maestà Asburgica, la mater matuta cantatrice…
e Mozart
Mozart e il Settecento, dunque, secolo della musica oltre che secolo dei lumi. E tuttavia la spiegazione convince solo in parte: resta, in quell’e Mozart, la suggestione sottile di qualcosa in sospeso, l’ultima vibrazione di una nota cessata.
Tommaso Dell’Era scrive di musica da letterato e narra di un viaggio lungo i percorsi mozartiani, da Napoli a Vienna, alla ricerca dell’uomo e del musicista. Dalla visita dei luoghi scaturisce una biografia, tanto singolare quanto non cronologicamente ordinata; emergono ipotesi e osservazioni; nasce un saggio, una serie di piccoli saggi sulle persone e sull’ambiente. Tutto questo all’interno di una cornice che raccorda passato (la vita di Mozart) e presente (il viaggio dell’autore). L’opera sembra così collocarsi in una sorta di zona franca tra scrittura e musica, cronaca e storia, analisi e racconto: viene alla mente il Mittelglied pensato da Goethe, il felice “luogo di mezzo” sintesi di ogni processo artistico e culturale.
Anche “e Mozart” ebbe vita difficile. Qualche critico musicale lo lesse, l’apprezzò; pochi altri lettori, poi basta.
Ma Tommaso Dell’Era era già alle prese con il suo quarto libro, “I cavalieri di san Nicola” che scriverà e darà alle stampe in pochi mesi. E’ un racconto lungo, la rievocazione storica e fantastica, commossa e sorridente del cosiddetto “sacro furto”, il trafugamento delle reliquie di san Nicola. Protagonisti dell’impresa furono sessantadue marinai, ma l’autore preferisce chiamarli cavalieri perché s’avventurarono in una giostra rischiosa che, se vinta, li avrebbe premiati con le spoglie del santo. Accurata la struttura psicologica dei personaggi, e l’opera tuttavia ne risulta corale: le singole caratteristiche ricompongono nel loro insieme una mentalità collettiva, i cavalieri del Dell’Era parlano, pensano e si muovono in nome di un unico popolo. Ritratti fedeli di un’anima tutta barese, attori e autori di quell’epopea un po’ truffaldina che è stata, nella storia della città, la traslazione di san Nicola.
Gli ultimi anni furono di inesausta scrittura, e in questa egli depositò forse le sue prove più alte; ma non è qui che si possa considerare la produzione inedita. Piuttosto, rimane da chiedersi, esiste una logica complessiva nei quattro libri pubblicati in vita? Chi scrive è di questo avviso. Allineati l’uno accanto all’altro, paiono infatti comporsi in un’architettura chiusa, simmetrica, stilisticamente omogenea: un libro di viaggi seguito da uno scritto sulla sua città; un lungo silenzio e poi ancora un libro di viaggi; a ridosso, un’altra opera di argomento barese.
Si parte per tornare, recita un vecchio adagio, forse la chiave di volta è lì.