La carogna


Sei demolito, guarda: la tua testa
è svitata dal corpo,
gatti si curvano nel tuo cervello,
e il tuo cuore è una rondine di fieno
sprofondata nel fango.

Parli come una bambola, ti chini
come sedia sospesa su un gradino,
una mosca turchina per anello
sulle fragili dita
ingentilisce la tua nocca, ronza
disegnando falangi d’oro scuro
e un demonio ti balza sulle labbra,
non hai più pugni, ma con mani aperte
soffi su fiamme immaginarie, schiacci
grilli senza più gola contro il muro.
Una gamba, poi l’altra,
e il tuo passo s’appiccica alla ruota,
stride fra i raggi dell’acciaio, urla,
entra nel buio delle chiese, frana
nel profondo castello delle talpe.
Un cartone confitto sulla faccia,
l’ora dei farmaci, il riposo, il vuoto
della finestra e della mente, l’ora
dell’abete che intrappola le salme
ti compone all’abisso, ti sospinge
nello squarcio di terra.
Sei una carogna che sorride, un santo
dalla bocca corrotta dalla furia.
Unito al fango che ti sputa il viso
dalla crosta alla tenera galassia,
la tua enorme coscienza ammutolita
gioca con cigni trasognati, nutre
sbarre e conigli, laghi chiari
poggia fronti di zucchero nell’ombra
di una balia spezzata alle radici.
Il rasoio ti ha tolto la criniera, il galoppo
chiuso nella pantofola di lana
ha scavalcato letti e campi oscuri,
ha buttato nel vuoto la tua cetra,
si è bagnato violento nell’orina
e nell’arida lacrima.
Non hai più occhi, ma feroci buchi,
hai inghiottito la tenebra
con un grande cucchiaio colorato
e la tenebra immensa ha divorato
la bufera azzurrina del tuo mento.
Un dio terribile ti ha regalato
un lungo trespolo di mani vuote
e di arance appassite,
e lo spirito santo ti ha spogliato
sulla punta più nera del cipresso:
sei un impiccato che no ha più sesso
ma una testa di gallo nella gola.