Il gioco della bandiera
Siccome dopo la testa è
nascosta dentro il casco e non è mai chiaro nemmeno se sono
donne, laveva impressa in mente prima che mettesse in moto
e sparisse giù verso via Giulia, sotto il casco rosso come una
ciliegia. Quello che non aveva rivali era il passo. Camminava con
leleganza di un animale e lincertezza di cappuccetto
rosso però era cappuccetto doro e di rame con tutti quei
riccioli doro sparsi fino sulle spalle. E quella fu la
prima volta.
Dopo che se ne fu andata le panchine dei giardini pubblici si
vuotarono e fu come se tutti fossero spinti da un ordine
infernale di dire ogni cosa che sapevano proprio a lui. E
così che funziona nei paesi, e nei giardini pubblici. Forse
anche in quelli di Roma. A villa Fiorelli, diciamo, quartiere
Tuscolano. A villa Sciarra, bella e segreta. Quartiere
Gianicolense. Oppure anche a villa Celimontana, sul Celio. Dove
cè anche la società geografica e sono successe cose
grosse difficili da dimenticare.
Si chiama Lionetta.
Lionetta Leoni. Quel giorno che era quasi luna lei stava
andando a casa Leoni in villa Leoni, allincrocio di villa
Leoni, dove la seconda colazione è un rito collettivo. Il
giardino si riempie di moto e di fuoristrada. La servitù si
schiera nel salone. Ogni giorno. E il patriarca si siede a
capotavola come un feudatario di altri tempi facendo
lappello con una occhiata annoiata ma attenta ai dettagli.
Vede tutto, il vecchio.
Nonostante i suoi ottantacinque anni lui vede locchio
depresso e quello troppo vispo. Avverte ansia e noia. Trionfi e
miserie.
Del resto lui non ha altro da fare, salvo controllare che i beni
di famiglia rendano sempre molto bene, e che lintera città
si sprofondi in saluti devoti durante la sua passeggiata delle
sei del pomeriggio, tra i palazzi del centro storico, quando si
muove per andare a sfogliare le vecchie carte dellarchivio
comunale e i giornali di quando era un ragazzo ricco in un paese
tutto quanto ai suoi piedi.
Alla destra di Leopardo Leoni siede sua moglie Serena, la madre
di Lionetta. Ha ventanni meno del marito, e quarantacinque
più di Lionetta. Gli altri figli sono venuti nei primi anni del
matrimonio. Lionetta è arrivata ultima, e si è ritrovata in un
clima già consolidato e in un mondo pieno di grandi presuntuosi
e annoiati. Di sua madre ha il portamento. Del padre non si sa.
Bisognerebbe frequentarla ma nessuno lha fatto, almeno tra
quelli che riferiscono.
Lui, il trentenne che raccoglie tutte queste confidenze come
frutti maturi dellorto delle delizie è fiero di non
lavorare. Il quotidiano locale lo paga con le tariffe dei
giornalisti professionisti grazie a pressioni pesanti che la
proprietà ha ricevuto da Roma, e a volte passa dal giornale,
più per sostare nel box del direttore scambiando chiacchiere
inutili che per scrivere qualcosa.
Per gli articoli usa lo pseudonimo già usato da Giacomo
Leopardi, Filippo Ottonieri. I suoi scarsi lettori lo considerano
il suo nome vero, e a lui la cosa non interessa, anzi lo aiuta a
passare inosservato. Qualche bene di famiglia arrotonda il
reddito, consentendogli di cincischiare senza sensi di colpa.
Cincischione sarebbe la definizione di status. Ma lui preferisce
flanellatore. Fare flanella gli sembrava molto più dignitoso che
cincischiare, e aveva memorizzato quel termine dopo un lungo
studio sui testi, a partire da un foglio letterario che sempre
Giacomo Leopardi avrebbe dovuto fondare e dirigere a Firenze, nel
1832, e del quale si limitò a predisporre soltanto il progetto
editoriale e il titolo: lo spettatore fiorentino. Nel preambolo
del progetto editoriale Leopardi scriveva:
"Se in italiano si avesse una parola che significasse quello
che in francese si direbbe le flaneur, quella parola appunto
sarebbe stata il titolo sospirato."
Ma il consiglio dei ministri del Granducato di Toscana respinse
il progetto, e Leopardi non diventò antenato di Albertini, e dei
tanti giornalisti locali più o meno flanellatori e cincischioni.
Cincischione del resto è parola interessante,
dalletimologia cincischiata. La Crusca la fa derivare da
una alterazione del latino edere, tagliare.Dal supino incisum si
sarebbe formato un incisiculare e quindi un incischiare,
rafforzato in ci-incischiare. Per altri la voce sarebbe
onomatopeica, e riguarderebbe il rumore di forbici in
difficoltà, o perché non affilate, ovvero perché impegnate a
tagliare qualcosa di troppo grosso per loro.
Quindi il termine nascerebbe sotto il segno della difficoltà nel
fare passi più lunghi della gamba. Incertezza e titubanza,
piuttosto che svogliatezza.
Lui trovava ragionevole darsi del cincischione, se ci si fermava
qui. Era vero che si impegolava in cento progetti, e pretendeva
di portarli avanti tutti. Ma non riusciva a mangiare un panino
così ricco e la mascella si slogava.
Le forbici cincischiavano.
Era arrivato a questo punto della sua privatissima ricerca quando
si verificarono sotto il cielo sopra Osimo due straordinari
avvenimenti. Il primo fu la visione di Lionetta Leoni, prima che
si infilasse il casco da moto, con il passo da animale spaurito e
la cascata di capelli ricci naturali. E il secondo la lettura del
seguente passo del Ricettario Laurenziano:
"Et nota che se a la luna nuova, quando si leva lo sole,
dicollerai upuppa, et lo suo cuore cincischierai et inghiotterai,
si poterai sapere tutte le cose che si fanno, et le mente de li
omini."
Quando Lionetta gli era passata davanti, con quel passo
assolutamente fuori della norma, un passo da nobile animale e da
donna in crisi, non laveva capito che fosse la
reincarnazione di unupupa, anche se i dati cerano
tutti.
Ma poi ci pensò meglio. Ripensò ai tre colpi di clacson
ripetuti. In quel momento quel suono aveva soltanto un senso, e
riguardava un possessore di fuoristrada trucido che aveva chiuso
in un angolo cieco la sua moto. Però quello era anche e
soprattutto il verso dellupupa.
Quei capelli pieni di riccioli naturali ramati e rosso oro
intercettavano lo sguardo di tutti e di ciascuno e impedivano di
pensare. Ma dopo, riavvolgendo il film a freddo, quello era il
ciuffo a ventaglio di penne rosso sgargiante dellupupa.
Quando tutto questo fu chiaro per lui fu proprio molto ovvio
pensare che il collo lì sotto si sarebbe dovuto tagliare, in un
modo o in un altro. Macellandola.
Quando si conobbero, e non fu semplice, Lionetta Leoni rise di
quella contorta profezia.
Rise con una risata secca, perché faceva tutto in modo educato e
rapido. Abulico, anche. Distaccato e lontano.
Stava sempre in un suo altrove, in una zona parzialmente
autonoma, protetta dalla ricchezza, e dai diritti che le donne
piene di fascino possiedono e gestiscono con feroce egoismo
quando si imbattono in un cincischione. Inesorabilmente.
Lei quindi rise, e non lo prese sul serio neppure un istante.
Neppure come metafora. Come licenza poetica.
Lui però intanto gli era entrato in casa, nella villa piena di
allarmi e di sicurezza. Aveva fatto carte false. Un giorno aveva
noleggiato dieci furgoni pieni di tappeti persiani e si era finto
venditore di tappeti. La signora Serena lo aveva accolto con
elegante indifferenza, ma Lionetta aveva immediatamente scoperto
la truffa e si era divertita a contestare ogni tappeto, alla
morte. Lui del resto non voleva vendere, ma essere acquistato.
Acquisito. Diventare parte dellarredamento della villa.
Parte della cameretta di Lionetta, che riuscì a vedere e
frequentare solo quando si fece assumere come cameriere,
lavorando davvero per una unica volta nella sua cincischiata
esistenza terrena.
Laveva scoperto per caso che a villa Leoni mancava un
cameriere. Qualcuno aveva fatto la spia. Forse proprio Lionetta,
seduta al bar e parlando a voce alta con le amiche.
"Non si trova più un cameriere bravo", aveva detto,
stancamente. "Adesso sono solo filippini o rumeni; e chi si
fida di quelli?"
Lui si era presentato senza sapere niente del mestiere e solo la
benevolenza del maggiordomo maggiore gli aveva consentito di
durare il solo mese di prova. Però un mese è lungo se ogni
giorno puoi guardarti e coccolarti Lionetta, e annusare la sua
camera quando lei è via, o la sua moto e il suo casco quando è
in camera. Poi ci sono le notti.
Lei era sempre altrove. Abulica, distaccata e lontana.
Però aveva pure il suo retrogusto ribelle e anticonformista. Una
punta. Quel tanto che bastava per non tradire il segreto del
falso cameriere, e per trovare geniale lidea di fingere una
professionalità improbabile al solo scopo di starle addosso in
casa.
Un giorno erano al duomo, da soli. Fuori faceva il caldo
dellinizio destate mentre sotto la navata si stava da
dio. Lui la accarezzava, ma lei al solito era altrove con le
sensazioni più profonde. E lo diceva:
"Che ci facciamo qui, in questa puzza di chiesa?"
"Dove vorresti essere?"
"Sul mare. Senza niente allorizzonte. Libera."
"Libera. E una parola grossa."
"Io sono sempre libera. E la cosa più semplice,
invece".
"Vedi quello stendardo rosso e bianco, con le mezze lune?
Era la bandiera di un corsaro turco che faceva scorrerie nel
Mediterraneo, agli inizi del settecento. Se lo avessi incontrato
in mezzo al mare, addio libertà."
" Chissà come sarebbe andata. Magari diventavo pirata
anchio. Ma perché hai detto del settecento? Del
quattrocento, dirai."
"Macché. Era il settecento. I tempi di Filippo V di Spagna
che sposava Elisabetta Farnese, con lo zampino del cardinale
Alberoni. Giulio. Degli spagnoli che invadevano la Sardegna.
Della quadruplice alleanza (Inghilterra, Francia, Olanda e
Austria) contro la Spagna."
Quando voleva lui era pedante. Sussiegoso. Supponente.
Pesantissimo. Scaricava bisogni insoddisfatti di protagonismo. E
quel giorno voleva dimostrare la sua erudizione. Avrebbe potuto
infilarsi nella pista di Lionetta amante del corsaro rosso,
almanaccando e cincischiando. Invece no. Lui continuò,
implacabile:
"Dopo la resa della Spagna Alberoni cardinale Giulio fu
allontanato dalla corte. Arrivato a Roma, fu processato. Nel
senso che nel 1723 una congregazione cardinalizia lo liberò da
ogni accusa. Precisamente in quellanno un pirata turco,
Amurat, che poi era di Palermo e si chiamava (o si era chiamato)
Antonio Sanfilippo, fu intercettato sul Tirreno al largo di Torre
Astura e di Torre di Foce Verde dalla galea padrona San Francesco
e dalla galea San Pietro, entrambe del papa. La San Pietro era
guidata dallosimano Francesco Guarnieri, che abitava dove
oggi cè il circolo dei signori, davanti al Comune. E la
bandiera che il Guarnieri strappò dalla poppa del pinco
barbaresco era quella lì. La vogliamo rubare?"
"Per farne che?"
"Non so. La potremmo mettere sulla torre del Comune, a
sventolare. Se lo meriterebbe, dopo tutti questi anni in questa
chiesa che puzza così tanto di chiesa cattedrale, lei che con
questa religione centra così poco, e che è stata fatta
per navigare e per respirare laria di mare e il vento di
scirocco, che viene da sud est, dal Sahara."
"E in Libia si chiama Ghibli. In Croazia, Jugo, tanto da
farci battezzare tutto quel mondo oltre lAdriatico con il
nome del vento. E qui da noi Corina e Garbino".
"Una bandiera nata per sbucare allimprovviso, dalle
nebbie del Levante, e terrorizzare pescatori e mogli di
pescatori, e figlie e figli che scomparivano in un fuggi fuggi
generale oltre le dune e le povere case dei porti tirrenici, o
dei nostri, adriatici, dove le galee del papa si facevano vedere
poco e la difesa la faceva Venezia a modo suo, quando si
ricordava e proteggendo solo sé stessa."
Era bella, la giovane upupa. Non aveva paura.
Non si stendeva in terra con le ali spiegate e la coda spalancata
come dire fai di me quello che vuoi ma non mi artigliare ti
prego.
Era bella così, anche senza ostentare le penne a ciuffo. Lui era
perso in quella cascata di boccoli e sentiva il suo odore che si
faceva suono e molto più tardi parola. Non ci sono parole, e
quelle che pure esistono portano fuori strada. Amore, passione,
possesso, dipendenza. Niente. Niente di tutto questo.
Lui la guardava e la sentiva come parte indispensabile di sé,
come un organo essenziale che non può essere spiantato senza
danneggiare e devastare e deprivare. La differenza tra amputare e
devastare era quella, perché se lei se ne fosse andata non
sarebbe stata amputazione ma tragedia assoluta. Devastante.
Non fu facile. Trovare un modo per accedere alla torre del
Comune, e arrivare lassù dove cè lasta per la
bandiera delle più grandi occasioni non fu facile. Eppure una
notte di luna nuova, sul fare dellalba, dietro i merli
incerti se dichiararsi guelfi o ghibellini carichi comerano
di mattoni che affogavano ogni identità nel cemento tardo e
qualunquista sventolò la fiamma a due punte dellalbero
maestro del pinco barbaresco corsaro.
Gli osimani impiegano secoli ad alzare la testa, e poi a capire
le novità. Ma quella bandiera rossa e bianca con le mezze lune
lindomani si sarebbe veduta dai campi e avrebbe fatto
pensare.
Loro la guardarono salire e gonfiarsi e sventolare. Fu cosa di
pochi minuti. Poi si abbracciarono e lui lentissimamente
sfiorandole la fossetta e le due lentigo labialis cominciò i
lunghissimi preliminari del bacio più esaltato della sua vita,
il bacio sotto la bandiera turca, nel vento carico dei pollini
delle valli attorno alla città, con quella donna abulica tra le
braccia, contenta per la loro stupida impresa.
Era quello il momento di stringerle il collo. Lora era
quella. Mentre lorizzonte stingeva la notte e lalba
si annunciava cincischion cincischioni, strappando il sipario di
velluto scuro.
Per sapere tutte le cose che si fanno, et la mente de li omini,
quello era il momento di decollarla. Macellandola. Per
cincischiare e inghiottire il suo cuore.
Lassù, in cima alla torre. Mentre lintero sistema di valli
intorno si rischiarava con il riverbero del rosso del cielo.
Rosso sangue.
Leopardo Leoni si svegliava molto presto, come capita ai vecchi.
Spesso era ancora notte, e lalba la vedeva nascere se
alzava gli occhi dal computer, dove confrontava e collegava gli
appunti presi nellarchivio storico. A volte scendeva sotto,
nella camera di sua figlia Lionetta. Gli piaceva guardarla
sprofondata nel sonno duro dei giovani, quello che non viene
messo in crisi da uno scricchiolio e nemmeno da una seggiola
urtata sbadatamente.
Si godeva il profilo dove vedeva tracce dei Leoni ma anche parti
dei Riccobaldi i cui dolci segni sua moglie Serena aveva portato
in dote come un paesaggio di proprietà. Come un lotto
edificabile con vista sul mare.
A volte dalle lenzuola usciva un braccio, o una gamba. Le dita di
una mano oppure quelle di un piede. Lui faceva linventario.
Contava. Misurava. Soppesava.
Da giovane era stato feticista, e di sua moglie Serena aveva
apprezzato tutto, dai capelli alla bocca, dai seni
allombelico, alle chiappe, ai polpacci ai piedi che aveva
succhiato come un gelato una infinità di volte. Ma Lionetta era
diversa. Non la desiderava. Non la confondeva con una cameriera,
o con la figlia adolescente del fattore che lo eccitava ogni
volta quando spuntava in giardino. Lionetta era unopera
darte completa e assoluta. Capiva che possedeva un
equilibrio totale e che guardarsela così era un privilegio da
ricchi, ma non riusciva ad essere porco con lei.
Quel mattino rosso fuoco e rosso sangue però non scese la rampa
di scale, e quindi non trovò il letto vuoto e intatto. Preferì
i suoi appunti e i suoi viaggi di archivio in quel paese
straniero dove fanno le cose in modo così diverso da come le
faremmo noi da diventare indisponenti e molto sospetti di
misfatti ben occultati.
Anche sua moglie, Serena Riccobaldi, passati i sessanta non
dormiva più come una volta. Lo sentiva scendere dal lettone, e
qualche volta lo fermava, chiedendo un pedaggio di tenerezze
mattutine.
Quel mattino invece si era fatta piccola fingendo di dormire.
Aveva sentito i tre colpi di clacson del canto dellupupa e
dalla finestra spalancata era entrata una folata di vento freddo.
Gelido, quasi.
Chissà perché aveva pensato con ansia a Lionetta. E si era
infilata dentro il cuscino come nel cuore segreto di una caverna
amica, cercando un supplemento di sogni mentre lalba
sbiancava, lupupa lanciava segnali inquieti e il cielo si
faceva rosso. Rosso sangue.
"Et nota che se a la luna nuova, quando si leva lo sole,
dicollerai upuppa, et lo suo cuore cincischierai et inghiotterai,
si poterai sapere tutte le cose che si fanno, et le mente de li
omini."
Leopardo Leoni sentiva sua moglie in ansia. Con gli anni la
fisicità si mescola e si diventa consustanziali. Lasciò che sul
computer scorressero via i suoi ultimi appunti e invece
apparissero le fotografie del matrimonio, e altre immagini più
antiche dove Serena era nuda e solare, con un sorriso
incredibilmente leggero e dolce. Ricordava quella mattinata.
Laveva convinta a non andare a scuola senza fare troppa
fatica perché lei tra i banchi neri del Liceo classico ci andava
malvolentieri e subiva il rito come una insopportabile violenza.
Non erano ancora fidanzati.
Lei era solo un fiore.
Il più bello del giardino. E lui un quarantenne sporcaccione che
per gioco insegnava al liceo scienze naturali portandosi le
ragazzine per campi e boschi a fare ricerche, spostandosi nel suo
camper, uno dei primi sul mercato. Quel giorno però niente finte
lezioni. Niente agguato nel camper. Laveva portata in una
delle case di campagna dove portava le donne grandi, e avevano
parlato di letteratura francese. Boris Vian. Sterpacuore. Non
aveva avuto il coraggio neppure di baciarla, quel giorno. Però
laveva convinta a posare nuda.
Quelle erano le foto di quella giornata delicata ma lontanissima,
ingrandite e omogeneizzate dal computer che riporta ogni cosa al
suo personale presente tecnologicamente rasserenante e bene
ordinato.
Una Serena nuda, di ottima annata, era un buon modo di avviare la
giornata. E Leopardo Leoni se la ingrandiva fino ai quadrettati
senza più immagine perso in ricordi complicati.
Il passato sarà pure come un paese straniero dove le cose si
fanno in modi diversi da come ce le immaginiamo, ma immaginare
limmaginaria Serena di un tempo era un altro modo ancora di
mescolare e di confondersi. Ricordava il momento della barbarie,
poche settimane dopo. Aveva inventato un fine settimana di studio
di una riserva faunistica ed erano partiti in quattro. Tre
studenti e il professore. Due fidanzati, Serena e lui. Si erano
spostati di centinaia di chilometri fino a Comacchio, e con i due
fidanzati Leopardo Leoni aveva stretto un patto miserabile. Verso
sera avrebbero finto di decidere di voler passare la notte in un
alberghetto per un ritorno di passione, costringendo gli altri
due ad una notte sul camper senza testimoni.
Fu così che Serena Riccobaldi fu sedotta dal professor Leoni.
Sotto la doccia del camper, in piedi, da dietro. E con molta
violenza, anche. Niente in quella brutta pagina della didattica
liceale avrebbe lasciato supporre le successive nozze. Niente,
salvo un lento ma costante e reciproco innamoramento,
imprevedibile e pure reale. Perché il mondo gira con leggi
insondabili, e la violenza, il raggiro e i secondi fini sordidi
molto spesso pagano oltre ogni giustizia umana e divina.
La notte del camper il professore incassò il pedaggio, lo ius
medievale, il maltolto. E il sorriso di Serena era meno limpido,
più tirato, più forzato.
Su quel corpo delicato e armonioso passarono come armate da
saccheggio le mani di Leopardo Leoni che strinsero e agguantarono
senza amore e senza leggerezza. Arraffarono smanazzando.
Smanazzarono arraffando. Eppure nelle settimane successive crebbe
un desiderio di modi più delicati di ottenere il medesimo
risultato, e fu quasi un risarcimento dovuto, quasi un modo per
scusarsi abbeverandosi ancora e ancora alla stessa limpida fonte
ma senza più sbavare e senza succhiare dalla canna. Senza
mettere i piedi nellacqua limpida intorbidandola come un
lupo qualsiasi mentre lui era un leone, accidenti.
La stessa notte del resto non tutto era stato feroce. Verso
lalba laveva portata ai ponti di Comacchio, deserti e
appena toccati dalle prime luci, e cerano stati discorsi
legati alla navigazione, ai commerci. Ai corsari doriente.
A piedi lungo il canale la violenza del sesso cambiava volto e
umore. Lodore del mare lontano e dei canali spalancati ai
loro piedi dava alla testa e pretendeva passioni alte. Anche il
leone lo sa, quando deve smetterla di essere prepotente e giocare
altre carte.
Serena quei giorni aveva letà di Lionetta. Era bella come
Lionetta. Forse anche di più, se le immagini dicevano il vero e
i ricordi e il brivido di desiderio che si faceva forte mentre lo
sguardo cadeva sulla torre municipale e sullo strano stendardo
che sventolava sui merli bastardi.
Leopardo cercò sua moglie infilata nel buio del cuscino e la
accarezzò sfiorandola appena. Sollevandole il camicione e
sfilandolo accompagnava ogni passaggio con piccoli tocchi,
annusando la pelle e le natiche grandi e le ascelle aperte come
due nuove passere al vento. Sua moglie era sveglia, e soprattutto
era pronta. Ad occhi chiusi si apriva e si concedeva come una
stella marina che si fa riempire dacqua salmastra dal mare.
Dopo, commentarono.
"E difficile raccontarlo in giro" disse lui.
"Pure, da vecchi è meglio. Si gode di più. E
unesperienza diversa, molto più completa".
"Sarà che non ricordi più comero
"
provocava Serena.
E lui avrebbe potuto dire che con la figlia del fattore non era
mai stato così bello anche se quella era una bestiola che faceva
pure dell altro che con la moglie non si fa ma ci sono cose
che non si dicono e si limitò a infilarle le dita sotto il
clitoride baciando e leccando lombelico e poi la peluria e
infine le grandi labbra mentre gli tornava la voglia di
possedersela e godersela ancora, la madre di Lionetta, pensando
alla furia dei soldati che mettono a sacco una città solo per il
piacere di sbattersi le mogli e le figlie del nemico.
Durò quello che doveva durare, e pensò anche a Lionetta e alla
figlia del fattore, contrapposte e complementari e sempre donne
mentre lalba rosso sangue sfumava nella luce fredda del
nuovo giorno.
Dalla torre municipale arrivavano anche i tocchi delle mezze ore.
La notte il rumore delle campane sarebbe insopportabile e quindi
è sospeso. Quando riprende é segno di rinascita. Il giorno
cresceva e si faceva grande facendo le cose in modo diverso da
come si fanno quando si capita indietro, nel passato.
"Se alla luna nuova quando si leva lo sole decollerai
uppupa"
Non è così che si fa, oggi. Non più. Per credere di sapere
tutte le cose che si fanno ci sono altre ricette. Si cincischia
altrove.
E poi Serena non è una upupa. Non ne ha il collo lunghissimo, le
piume rosse nella cresta che in capo a Lionetta possono sembrare
riccioli rosso oro. Infatti Leopardo Leoni non le taglia il
collo, e torna al suo computer e al finestrone con vista sulla
torre municipale imbandierata come la poppa di una nave corsara
che sfida le nuvole e i venti.
Però se avverte una minaccia tremenda, se nel cuore gonfio di
tristezza sente come colpi di clacson che crescono
dintensità, se sopra villa Leoni sembra crescere un globo
di vuoto spinto che risucchia via ogni speranza e ogni ricordo
quasi che lintera giovinezza di Lionetta non esistesse
ormai più e non ci fosse nemmeno più futuro, allora Serena
Riccobaldi esattamente come fa lupupa quandè
spaventata allarga le sue braccia sul lettone e le spalanca come
ali inutili schiacciate a terra, e anche le gambe e i piedi sono
premuti sulle lenzuola e tutta la sua figura è bocconi, e il
viso fiero e solare di nuovo è infilato nel buio del cuscino
come nel cuore segreto di una caverna amica.
(Ancona, 9 / 18 settembre 2006)
© Mariano Guzzini