Il gioco della bandiera

 

Siccome dopo la testa è nascosta dentro il casco e non è mai chiaro nemmeno se sono donne, l’aveva impressa in mente prima che mettesse in moto e sparisse giù verso via Giulia, sotto il casco rosso come una ciliegia. Quello che non aveva rivali era il passo. Camminava con l’eleganza di un animale e l’incertezza di cappuccetto rosso però era cappuccetto d’oro e di rame con tutti quei riccioli d’oro sparsi fino sulle spalle. E quella fu la prima volta.
Dopo che se ne fu andata le panchine dei giardini pubblici si vuotarono e fu come se tutti fossero spinti da un ordine infernale di dire ogni cosa che sapevano proprio a lui. E’ così che funziona nei paesi, e nei giardini pubblici. Forse anche in quelli di Roma. A villa Fiorelli, diciamo, quartiere Tuscolano. A villa Sciarra, bella e segreta. Quartiere Gianicolense. Oppure anche a villa Celimontana, sul Celio. Dove c’è anche la società geografica e sono successe cose grosse difficili da dimenticare.
Si chiama Lionetta.
Lionetta Leoni. Quel giorno che era quasi l’una lei stava andando a casa Leoni in villa Leoni, all’incrocio di villa Leoni, dove la seconda colazione è un rito collettivo. Il giardino si riempie di moto e di fuoristrada. La servitù si schiera nel salone. Ogni giorno. E il patriarca si siede a capotavola come un feudatario di altri tempi facendo l’appello con una occhiata annoiata ma attenta ai dettagli.
Vede tutto, il vecchio.
Nonostante i suoi ottantacinque anni lui vede l’occhio depresso e quello troppo vispo. Avverte ansia e noia. Trionfi e miserie.
Del resto lui non ha altro da fare, salvo controllare che i beni di famiglia rendano sempre molto bene, e che l’intera città si sprofondi in saluti devoti durante la sua passeggiata delle sei del pomeriggio, tra i palazzi del centro storico, quando si muove per andare a sfogliare le vecchie carte dell’archivio comunale e i giornali di quando era un ragazzo ricco in un paese tutto quanto ai suoi piedi.
Alla destra di Leopardo Leoni siede sua moglie Serena, la madre di Lionetta. Ha vent’anni meno del marito, e quarantacinque più di Lionetta. Gli altri figli sono venuti nei primi anni del matrimonio. Lionetta è arrivata ultima, e si è ritrovata in un clima già consolidato e in un mondo pieno di grandi presuntuosi e annoiati. Di sua madre ha il portamento. Del padre non si sa. Bisognerebbe frequentarla ma nessuno l’ha fatto, almeno tra quelli che riferiscono.
Lui, il trentenne che raccoglie tutte queste confidenze come frutti maturi dell’orto delle delizie è fiero di non lavorare. Il quotidiano locale lo paga con le tariffe dei giornalisti professionisti grazie a pressioni pesanti che la proprietà ha ricevuto da Roma, e a volte passa dal giornale, più per sostare nel box del direttore scambiando chiacchiere inutili che per scrivere qualcosa.
Per gli articoli usa lo pseudonimo già usato da Giacomo Leopardi, Filippo Ottonieri. I suoi scarsi lettori lo considerano il suo nome vero, e a lui la cosa non interessa, anzi lo aiuta a passare inosservato. Qualche bene di famiglia arrotonda il reddito, consentendogli di cincischiare senza sensi di colpa.
Cincischione sarebbe la definizione di status. Ma lui preferisce flanellatore. Fare flanella gli sembrava molto più dignitoso che cincischiare, e aveva memorizzato quel termine dopo un lungo studio sui testi, a partire da un foglio letterario che sempre Giacomo Leopardi avrebbe dovuto fondare e dirigere a Firenze, nel 1832, e del quale si limitò a predisporre soltanto il progetto editoriale e il titolo: lo spettatore fiorentino. Nel preambolo del progetto editoriale Leopardi scriveva:
"Se in italiano si avesse una parola che significasse quello che in francese si direbbe le flaneur, quella parola appunto sarebbe stata il titolo sospirato."
Ma il consiglio dei ministri del Granducato di Toscana respinse il progetto, e Leopardi non diventò antenato di Albertini, e dei tanti giornalisti locali più o meno flanellatori e cincischioni.
Cincischione del resto è parola interessante, dall’etimologia cincischiata. La Crusca la fa derivare da una alterazione del latino edere, tagliare.Dal supino incisum si sarebbe formato un incisiculare e quindi un incischiare, rafforzato in ci-incischiare. Per altri la voce sarebbe onomatopeica, e riguarderebbe il rumore di forbici in difficoltà, o perché non affilate, ovvero perché impegnate a tagliare qualcosa di troppo grosso per loro.
Quindi il termine nascerebbe sotto il segno della difficoltà nel fare passi più lunghi della gamba. Incertezza e titubanza, piuttosto che svogliatezza.
Lui trovava ragionevole darsi del cincischione, se ci si fermava qui. Era vero che si impegolava in cento progetti, e pretendeva di portarli avanti tutti. Ma non riusciva a mangiare un panino così ricco e la mascella si slogava.
Le forbici cincischiavano.
Era arrivato a questo punto della sua privatissima ricerca quando si verificarono sotto il cielo sopra Osimo due straordinari avvenimenti. Il primo fu la visione di Lionetta Leoni, prima che si infilasse il casco da moto, con il passo da animale spaurito e la cascata di capelli ricci naturali. E il secondo la lettura del seguente passo del Ricettario Laurenziano:
"Et nota che se a la luna nuova, quando si leva lo sole, dicollerai upuppa, et lo suo cuore cincischierai et inghiotterai, si poterai sapere tutte le cose che si fanno, et le mente de li omini."
Quando Lionetta gli era passata davanti, con quel passo assolutamente fuori della norma, un passo da nobile animale e da donna in crisi, non l’aveva capito che fosse la reincarnazione di un’upupa, anche se i dati c’erano tutti.
Ma poi ci pensò meglio. Ripensò ai tre colpi di clacson ripetuti. In quel momento quel suono aveva soltanto un senso, e riguardava un possessore di fuoristrada trucido che aveva chiuso in un angolo cieco la sua moto. Però quello era anche e soprattutto il verso dell’upupa.
Quei capelli pieni di riccioli naturali ramati e rosso oro intercettavano lo sguardo di tutti e di ciascuno e impedivano di pensare. Ma dopo, riavvolgendo il film a freddo, quello era il ciuffo a ventaglio di penne rosso sgargiante dell’upupa.
Quando tutto questo fu chiaro per lui fu proprio molto ovvio pensare che il collo lì sotto si sarebbe dovuto tagliare, in un modo o in un altro. Macellandola.
Quando si conobbero, e non fu semplice, Lionetta Leoni rise di quella contorta profezia.
Rise con una risata secca, perché faceva tutto in modo educato e rapido. Abulico, anche. Distaccato e lontano.
Stava sempre in un suo altrove, in una zona parzialmente autonoma, protetta dalla ricchezza, e dai diritti che le donne piene di fascino possiedono e gestiscono con feroce egoismo quando si imbattono in un cincischione. Inesorabilmente.
Lei quindi rise, e non lo prese sul serio neppure un istante. Neppure come metafora. Come licenza poetica.
Lui però intanto gli era entrato in casa, nella villa piena di allarmi e di sicurezza. Aveva fatto carte false. Un giorno aveva noleggiato dieci furgoni pieni di tappeti persiani e si era finto venditore di tappeti. La signora Serena lo aveva accolto con elegante indifferenza, ma Lionetta aveva immediatamente scoperto la truffa e si era divertita a contestare ogni tappeto, alla morte. Lui del resto non voleva vendere, ma essere acquistato. Acquisito. Diventare parte dell’arredamento della villa. Parte della cameretta di Lionetta, che riuscì a vedere e frequentare solo quando si fece assumere come cameriere, lavorando davvero per una unica volta nella sua cincischiata esistenza terrena.
L’aveva scoperto per caso che a villa Leoni mancava un cameriere. Qualcuno aveva fatto la spia. Forse proprio Lionetta, seduta al bar e parlando a voce alta con le amiche.
"Non si trova più un cameriere bravo", aveva detto, stancamente. "Adesso sono solo filippini o rumeni; e chi si fida di quelli?"
Lui si era presentato senza sapere niente del mestiere e solo la benevolenza del maggiordomo maggiore gli aveva consentito di durare il solo mese di prova. Però un mese è lungo se ogni giorno puoi guardarti e coccolarti Lionetta, e annusare la sua camera quando lei è via, o la sua moto e il suo casco quando è in camera. Poi ci sono le notti.
Lei era sempre altrove. Abulica, distaccata e lontana.
Però aveva pure il suo retrogusto ribelle e anticonformista. Una punta. Quel tanto che bastava per non tradire il segreto del falso cameriere, e per trovare geniale l’idea di fingere una professionalità improbabile al solo scopo di starle addosso in casa.
Un giorno erano al duomo, da soli. Fuori faceva il caldo dell’inizio d’estate mentre sotto la navata si stava da dio. Lui la accarezzava, ma lei al solito era altrove con le sensazioni più profonde. E lo diceva:
"Che ci facciamo qui, in questa puzza di chiesa?"
"Dove vorresti essere?"
"Sul mare. Senza niente all’orizzonte. Libera."
"Libera. E’ una parola grossa."
"Io sono sempre libera. E’ la cosa più semplice, invece".
"Vedi quello stendardo rosso e bianco, con le mezze lune? Era la bandiera di un corsaro turco che faceva scorrerie nel Mediterraneo, agli inizi del settecento. Se lo avessi incontrato in mezzo al mare, addio libertà."
" Chissà come sarebbe andata. Magari diventavo pirata anch’io. Ma perché hai detto del settecento? Del quattrocento, dirai."
"Macché. Era il settecento. I tempi di Filippo V di Spagna che sposava Elisabetta Farnese, con lo zampino del cardinale Alberoni. Giulio. Degli spagnoli che invadevano la Sardegna. Della quadruplice alleanza (Inghilterra, Francia, Olanda e Austria) contro la Spagna."
Quando voleva lui era pedante. Sussiegoso. Supponente. Pesantissimo. Scaricava bisogni insoddisfatti di protagonismo. E quel giorno voleva dimostrare la sua erudizione. Avrebbe potuto infilarsi nella pista di Lionetta amante del corsaro rosso, almanaccando e cincischiando. Invece no. Lui continuò, implacabile:
"Dopo la resa della Spagna Alberoni cardinale Giulio fu allontanato dalla corte. Arrivato a Roma, fu processato. Nel senso che nel 1723 una congregazione cardinalizia lo liberò da ogni accusa. Precisamente in quell’anno un pirata turco, Amurat, che poi era di Palermo e si chiamava (o si era chiamato) Antonio Sanfilippo, fu intercettato sul Tirreno al largo di Torre Astura e di Torre di Foce Verde dalla galea padrona San Francesco e dalla galea San Pietro, entrambe del papa. La San Pietro era guidata dall’osimano Francesco Guarnieri, che abitava dove oggi c’è il circolo dei signori, davanti al Comune. E la bandiera che il Guarnieri strappò dalla poppa del pinco barbaresco era quella lì. La vogliamo rubare?"
"Per farne che?"
"Non so. La potremmo mettere sulla torre del Comune, a sventolare. Se lo meriterebbe, dopo tutti questi anni in questa chiesa che puzza così tanto di chiesa cattedrale, lei che con questa religione c’entra così poco, e che è stata fatta per navigare e per respirare l’aria di mare e il vento di scirocco, che viene da sud est, dal Sahara."
"E in Libia si chiama Ghibli. In Croazia, Jugo, tanto da farci battezzare tutto quel mondo oltre l’Adriatico con il nome del vento. E qui da noi Corina e Garbino".
"Una bandiera nata per sbucare all’improvviso, dalle nebbie del Levante, e terrorizzare pescatori e mogli di pescatori, e figlie e figli che scomparivano in un fuggi fuggi generale oltre le dune e le povere case dei porti tirrenici, o dei nostri, adriatici, dove le galee del papa si facevano vedere poco e la difesa la faceva Venezia a modo suo, quando si ricordava e proteggendo solo sé stessa."
Era bella, la giovane upupa. Non aveva paura.
Non si stendeva in terra con le ali spiegate e la coda spalancata come dire fai di me quello che vuoi ma non mi artigliare ti prego.
Era bella così, anche senza ostentare le penne a ciuffo. Lui era perso in quella cascata di boccoli e sentiva il suo odore che si faceva suono e molto più tardi parola. Non ci sono parole, e quelle che pure esistono portano fuori strada. Amore, passione, possesso, dipendenza. Niente. Niente di tutto questo.
Lui la guardava e la sentiva come parte indispensabile di sé, come un organo essenziale che non può essere spiantato senza danneggiare e devastare e deprivare. La differenza tra amputare e devastare era quella, perché se lei se ne fosse andata non sarebbe stata amputazione ma tragedia assoluta. Devastante.
Non fu facile. Trovare un modo per accedere alla torre del Comune, e arrivare lassù dove c’è l’asta per la bandiera delle più grandi occasioni non fu facile. Eppure una notte di luna nuova, sul fare dell’alba, dietro i merli incerti se dichiararsi guelfi o ghibellini carichi com’erano di mattoni che affogavano ogni identità nel cemento tardo e qualunquista sventolò la fiamma a due punte dell’albero maestro del pinco barbaresco corsaro.
Gli osimani impiegano secoli ad alzare la testa, e poi a capire le novità. Ma quella bandiera rossa e bianca con le mezze lune l’indomani si sarebbe veduta dai campi e avrebbe fatto pensare.
Loro la guardarono salire e gonfiarsi e sventolare. Fu cosa di pochi minuti. Poi si abbracciarono e lui lentissimamente sfiorandole la fossetta e le due lentigo labialis cominciò i lunghissimi preliminari del bacio più esaltato della sua vita, il bacio sotto la bandiera turca, nel vento carico dei pollini delle valli attorno alla città, con quella donna abulica tra le braccia, contenta per la loro stupida impresa.
Era quello il momento di stringerle il collo. L’ora era quella. Mentre l’orizzonte stingeva la notte e l’alba si annunciava cincischion cincischioni, strappando il sipario di velluto scuro.
Per sapere tutte le cose che si fanno, et la mente de li omini, quello era il momento di decollarla. Macellandola. Per cincischiare e inghiottire il suo cuore.
Lassù, in cima alla torre. Mentre l’intero sistema di valli intorno si rischiarava con il riverbero del rosso del cielo. Rosso sangue.
Leopardo Leoni si svegliava molto presto, come capita ai vecchi. Spesso era ancora notte, e l’alba la vedeva nascere se alzava gli occhi dal computer, dove confrontava e collegava gli appunti presi nell’archivio storico. A volte scendeva sotto, nella camera di sua figlia Lionetta. Gli piaceva guardarla sprofondata nel sonno duro dei giovani, quello che non viene messo in crisi da uno scricchiolio e nemmeno da una seggiola urtata sbadatamente.
Si godeva il profilo dove vedeva tracce dei Leoni ma anche parti dei Riccobaldi i cui dolci segni sua moglie Serena aveva portato in dote come un paesaggio di proprietà. Come un lotto edificabile con vista sul mare.
A volte dalle lenzuola usciva un braccio, o una gamba. Le dita di una mano oppure quelle di un piede. Lui faceva l’inventario. Contava. Misurava. Soppesava.
Da giovane era stato feticista, e di sua moglie Serena aveva apprezzato tutto, dai capelli alla bocca, dai seni all’ombelico, alle chiappe, ai polpacci ai piedi che aveva succhiato come un gelato una infinità di volte. Ma Lionetta era diversa. Non la desiderava. Non la confondeva con una cameriera, o con la figlia adolescente del fattore che lo eccitava ogni volta quando spuntava in giardino. Lionetta era un’opera d’arte completa e assoluta. Capiva che possedeva un equilibrio totale e che guardarsela così era un privilegio da ricchi, ma non riusciva ad essere porco con lei.
Quel mattino rosso fuoco e rosso sangue però non scese la rampa di scale, e quindi non trovò il letto vuoto e intatto. Preferì i suoi appunti e i suoi viaggi di archivio in quel paese straniero dove fanno le cose in modo così diverso da come le faremmo noi da diventare indisponenti e molto sospetti di misfatti ben occultati.
Anche sua moglie, Serena Riccobaldi, passati i sessanta non dormiva più come una volta. Lo sentiva scendere dal lettone, e qualche volta lo fermava, chiedendo un pedaggio di tenerezze mattutine.
Quel mattino invece si era fatta piccola fingendo di dormire. Aveva sentito i tre colpi di clacson del canto dell’upupa e dalla finestra spalancata era entrata una folata di vento freddo. Gelido, quasi.
Chissà perché aveva pensato con ansia a Lionetta. E si era infilata dentro il cuscino come nel cuore segreto di una caverna amica, cercando un supplemento di sogni mentre l’alba sbiancava, l’upupa lanciava segnali inquieti e il cielo si faceva rosso. Rosso sangue.
"Et nota che se a la luna nuova, quando si leva lo sole, dicollerai upuppa, et lo suo cuore cincischierai et inghiotterai, si poterai sapere tutte le cose che si fanno, et le mente de li omini."
Leopardo Leoni sentiva sua moglie in ansia. Con gli anni la fisicità si mescola e si diventa consustanziali. Lasciò che sul computer scorressero via i suoi ultimi appunti e invece apparissero le fotografie del matrimonio, e altre immagini più antiche dove Serena era nuda e solare, con un sorriso incredibilmente leggero e dolce. Ricordava quella mattinata. L’aveva convinta a non andare a scuola senza fare troppa fatica perché lei tra i banchi neri del Liceo classico ci andava malvolentieri e subiva il rito come una insopportabile violenza. Non erano ancora fidanzati.
Lei era solo un fiore.
Il più bello del giardino. E lui un quarantenne sporcaccione che per gioco insegnava al liceo scienze naturali portandosi le ragazzine per campi e boschi a fare ricerche, spostandosi nel suo camper, uno dei primi sul mercato. Quel giorno però niente finte lezioni. Niente agguato nel camper. L’aveva portata in una delle case di campagna dove portava le donne grandi, e avevano parlato di letteratura francese. Boris Vian. Sterpacuore. Non aveva avuto il coraggio neppure di baciarla, quel giorno. Però l’aveva convinta a posare nuda.
Quelle erano le foto di quella giornata delicata ma lontanissima, ingrandite e omogeneizzate dal computer che riporta ogni cosa al suo personale presente tecnologicamente rasserenante e bene ordinato.
Una Serena nuda, di ottima annata, era un buon modo di avviare la giornata. E Leopardo Leoni se la ingrandiva fino ai quadrettati senza più immagine perso in ricordi complicati.
Il passato sarà pure come un paese straniero dove le cose si fanno in modi diversi da come ce le immaginiamo, ma immaginare l’immaginaria Serena di un tempo era un altro modo ancora di mescolare e di confondersi. Ricordava il momento della barbarie, poche settimane dopo. Aveva inventato un fine settimana di studio di una riserva faunistica ed erano partiti in quattro. Tre studenti e il professore. Due fidanzati, Serena e lui. Si erano spostati di centinaia di chilometri fino a Comacchio, e con i due fidanzati Leopardo Leoni aveva stretto un patto miserabile. Verso sera avrebbero finto di decidere di voler passare la notte in un alberghetto per un ritorno di passione, costringendo gli altri due ad una notte sul camper senza testimoni.
Fu così che Serena Riccobaldi fu sedotta dal professor Leoni. Sotto la doccia del camper, in piedi, da dietro. E con molta violenza, anche. Niente in quella brutta pagina della didattica liceale avrebbe lasciato supporre le successive nozze. Niente, salvo un lento ma costante e reciproco innamoramento, imprevedibile e pure reale. Perché il mondo gira con leggi insondabili, e la violenza, il raggiro e i secondi fini sordidi molto spesso pagano oltre ogni giustizia umana e divina.
La notte del camper il professore incassò il pedaggio, lo ius medievale, il maltolto. E il sorriso di Serena era meno limpido, più tirato, più forzato.
Su quel corpo delicato e armonioso passarono come armate da saccheggio le mani di Leopardo Leoni che strinsero e agguantarono senza amore e senza leggerezza. Arraffarono smanazzando. Smanazzarono arraffando. Eppure nelle settimane successive crebbe un desiderio di modi più delicati di ottenere il medesimo risultato, e fu quasi un risarcimento dovuto, quasi un modo per scusarsi abbeverandosi ancora e ancora alla stessa limpida fonte ma senza più sbavare e senza succhiare dalla canna. Senza mettere i piedi nell’acqua limpida intorbidandola come un lupo qualsiasi mentre lui era un leone, accidenti.
La stessa notte del resto non tutto era stato feroce. Verso l’alba l’aveva portata ai ponti di Comacchio, deserti e appena toccati dalle prime luci, e c’erano stati discorsi legati alla navigazione, ai commerci. Ai corsari d’oriente.
A piedi lungo il canale la violenza del sesso cambiava volto e umore. L’odore del mare lontano e dei canali spalancati ai loro piedi dava alla testa e pretendeva passioni alte. Anche il leone lo sa, quando deve smetterla di essere prepotente e giocare altre carte.
Serena quei giorni aveva l’età di Lionetta. Era bella come Lionetta. Forse anche di più, se le immagini dicevano il vero e i ricordi e il brivido di desiderio che si faceva forte mentre lo sguardo cadeva sulla torre municipale e sullo strano stendardo che sventolava sui merli bastardi.
Leopardo cercò sua moglie infilata nel buio del cuscino e la accarezzò sfiorandola appena. Sollevandole il camicione e sfilandolo accompagnava ogni passaggio con piccoli tocchi, annusando la pelle e le natiche grandi e le ascelle aperte come due nuove passere al vento. Sua moglie era sveglia, e soprattutto era pronta. Ad occhi chiusi si apriva e si concedeva come una stella marina che si fa riempire d’acqua salmastra dal mare. Dopo, commentarono.
"E’ difficile raccontarlo in giro" disse lui. "Pure, da vecchi è meglio. Si gode di più. E’ un’esperienza diversa, molto più completa".
"Sarà che non ricordi più com’ero…" provocava Serena.
E lui avrebbe potuto dire che con la figlia del fattore non era mai stato così bello anche se quella era una bestiola che faceva pure dell’ altro che con la moglie non si fa ma ci sono cose che non si dicono e si limitò a infilarle le dita sotto il clitoride baciando e leccando l’ombelico e poi la peluria e infine le grandi labbra mentre gli tornava la voglia di possedersela e godersela ancora, la madre di Lionetta, pensando alla furia dei soldati che mettono a sacco una città solo per il piacere di sbattersi le mogli e le figlie del nemico.
Durò quello che doveva durare, e pensò anche a Lionetta e alla figlia del fattore, contrapposte e complementari e sempre donne mentre l’alba rosso sangue sfumava nella luce fredda del nuovo giorno.
Dalla torre municipale arrivavano anche i tocchi delle mezze ore. La notte il rumore delle campane sarebbe insopportabile e quindi è sospeso. Quando riprende é segno di rinascita. Il giorno cresceva e si faceva grande facendo le cose in modo diverso da come si fanno quando si capita indietro, nel passato.
"Se alla luna nuova quando si leva lo sole decollerai uppupa"…
Non è così che si fa, oggi. Non più. Per credere di sapere tutte le cose che si fanno ci sono altre ricette. Si cincischia altrove.
E poi Serena non è una upupa. Non ne ha il collo lunghissimo, le piume rosse nella cresta che in capo a Lionetta possono sembrare riccioli rosso oro. Infatti Leopardo Leoni non le taglia il collo, e torna al suo computer e al finestrone con vista sulla torre municipale imbandierata come la poppa di una nave corsara che sfida le nuvole e i venti.
Però se avverte una minaccia tremenda, se nel cuore gonfio di tristezza sente come colpi di clacson che crescono d’intensità, se sopra villa Leoni sembra crescere un globo di vuoto spinto che risucchia via ogni speranza e ogni ricordo quasi che l’intera giovinezza di Lionetta non esistesse ormai più e non ci fosse nemmeno più futuro, allora Serena Riccobaldi esattamente come fa l’upupa quand’è spaventata allarga le sue braccia sul lettone e le spalanca come ali inutili schiacciate a terra, e anche le gambe e i piedi sono premuti sulle lenzuola e tutta la sua figura è bocconi, e il viso fiero e solare di nuovo è infilato nel buio del cuscino come nel cuore segreto di una caverna amica.

(Ancona, 9 / 18 settembre 2006)

 

© Mariano Guzzini