Bianco o Nero
I
… bianco o nero. Bene o male. Giusto o sbagliato. Erano le categorie mentali di Giuseppe Conti; categorie mentali da adolescente, anche adesso che l’età degli sconvolgimenti amorosi il Conti l’aveva passata da un pezzo. Da un bel pezzo. Malgrado l’implacabile avanzata degli anni, Conti ancora non riusciva a disfarsi dell’ingombrante scaffalatura che, più di ordinargli la mente, gli aveva complicato la vita. A non finire. Bianco o nero, bene o male, giusto o sbagliato: dove scovarli, estremi di tale nettezza, modelli di tale precisione, al di fuori della sua testa?; nella realtà, nella realtà quotidiana spicciola, sotto gli occhi, le orecchie, ed il naso di ciascuno, i vizi e le virtù si tengono per mano, i pregi ed i difetti vanno a braccetto, ed i buoni prendono il caffè e l’aperitivo al bar con i cattivi. Tutti i giorni, una mattina via la sera; mica per errore, in fondo ad un pomeriggio qualsiasi tramortito dalla noia. Con un’aggravante letale, per il Conti: la circostanza specifica del suo lavoro, un elemento decisivo che lo inchiodava alle proprie responsabilità, e non gli lasciava scampo. Il nostro era Avvocato. Ci campava. Male, a dire la verità. Dal punto di vista professionale, umano, sociale. Per tacere di quello economico. L’unica carta che si accumulava sul tavolo del suo studio era quella stampigliata delle bollette, sempre in attesa di pagamento. Di fascicoli, con i nomi dei clienti scritti a pennarello sulla copertina, qualcuno; di anticipi, da parte di costoro, pochini. Non perché non volesse pagare, la clientela dell’avvocato Conti. Perché non ce la facevano, i suoi clienti, a reggere il costo di una causa, se non altro per via della biblica lunghezza dei processi. I suoi assistiti lo stimavano, l’avvocato Conti; parecchi lo ammiravano, alcuni gli si affezionavano, perfino. Gli si affezionavano sinceramente, nel profondo, senza secondi fini. Ma tutti i suoi clienti, nessuno escluso, chi più chi meno, lo ritenevano un illuso, un ingenuo, un sognatore che non s’era mai svegliato; uno con la testa perduta, da giovane, nella purezza astratta degli ideali. E mai più ritrovata, anche ora che gli anni verdi erano volati via, lontano. Un avvocato sognatore è una contraddizione in termini; ed è un soggetto pericoloso, per sé e per il prossimo. Rappresenta il professionista da cui ogni individuo, a parole, giura di volere essere difeso, salvo poi a dimenticarsi del giuramento, quando dalle parole si passa ai fatti. Quando gli spietati ingranaggi del Tribunale si mettono in moto, ed iniziano a stritolare, incuranti di urla e pianti, il malcapitato di turno, già fanfarone di giusto e di bene; ma quand’era al sicuro, lontano dall’aula giudiziaria. All’epoca, con quei paroloni si riempiva la bocca. Ma adesso, che l’aula giudiziaria prende alla gola? Adesso l’assistito, il più tosto, il più coriaceo, il più granitico fra essi, ha una sola idea, un’unica convinzione, un chiodo fisso: chiudere al più presto il processo, e scappare a gambe levate, ed il più lontano possibile. Lontano anni luce da avvocati, giudici, toghe, leggi, cavilli. Per far ritorno, magari, nella Terra di Nessuno degli Assoluti Contrapposti, un mondo parallelo che sfoggiava il volto sporco della città, e che si allargava a dismisura nelle sue strade umide e scivolose di nebbia notturna. Ci si perdeva facile, nel mondo parallelo, come nel fondo dei bicchieri, una volta scolati cocktail a gradazione alcolica da febbrone di cavallo. Il bianco ed il nero, rigidamente ordinati sui ripiani mentali del Conti, si risolvevano, nella notte, in una striscia sconfinata e grigiastra; si mescolavano in un impasto di polvere e tedio, che il vento sollevava, e sbatteva in faccia all’Avvocato. Era un affezionato abitante del deserto dei sentimenti, il Conti, vi si aggirava a proprio agio, come il beduino solo in apparenza perso tra le dune di sabbia; capitava, lungo il cammino, di incrociare un’oasi, con le palme ed il pozzo di acqua fresca. Capitava di incontrare una donna, sempre quella sbagliata. Che scompariva rapidamente, come rapidamente era apparsa. Tanto da suscitare il dubbio: ma era esistita davvero?, o era stata solo un miraggio? E nel dubbio, il solito tarlo che rodeva, il solito picchio, a martoriare la corteccia degli affetti con il suo becco robusto ed appuntito: bianco o nero, bene o male, giusto o sbagliato, senza compromessi, anche nei fatti - e soprattutto misfatti - di cuore. Altro che tarlo, altro che picchio; sotto le spoglie di un docile animaletto, si nascondeva una bestia feroce che, del cuore, faceva brandelli, e li sparpagliava tutt’intorno, nell’aria umida e grigiastra della mezzanotte. Se si sta' insieme è perché ci si ama: altra categoria, ferma nella mentalità del Conti, avvolta con cura nei suoi sentimenti. E lì sotto destinata a restare. Nei fatti, nei fatti reali, si sta' assieme per tamponare alla meno peggio la solitudine, al ritorno a casa, dopo la giornata di lavoro; sempre meglio la falsa simpatia dell’ultima arrivata, che accendere il televisore, per trovare compagnia solo nei giochi a premio, …
© Pino Conte