Cirsium Heterophyllum o Cardo Triste

 

Ero giovane...forse era una scusa, ma giovane lo ero davvero.

Adesso ero li, fu inevitabile il mio ritorno sull’appenninico, questo almeno

glielo dovevo.

Era adagiata sul letto, dentro un vestito rosa che somigliava tanto a quello

che nel 1975, indossava quando usciva con me, o forse era quello seduto lì in

mezzo a degli estranei; solo il viso della madre mi era familiare… poverina,

com’era pallida.

Ripensai a quei mesi meravigliosi trascorsi con lei, mi amava di un amore

speciale durato anni.

Per me fu solo un avventura, un modo per rompere la monotonia del militare.

Ma era bellissimo passeggiare con lei lungo i sentieri, i ruscelli, ed era

bellissimo fare l’amore; aveva otto anni più di me e fu per sbaglio che la

conobbi.

Ripensandoci voleva uccidersi quel giorno, aveva i capelli come un riccio e

gli occhi rossi, era triste; gli ero passato accanto, si era voltata a guardarmi

"che bruttona" pensai e proseguii, ero incazzato nero, quegli stronzi mi

avevano lasciato a piedi, avrei dovuto percorrere molti chilometri.

Ma fatti pochi passi, mi voltai indietro appena in tempo per vederla sul

parapetto, la presi al volo, si dimenò un po’ tra le mie braccia piangendo e

urlando di lasciarla morire.

Nel suo dimenarsi, mi ritrovai a stringerle una mammella prosperosa e soda,

si calmò e la lasciai, cadde a terra e gli feci notare che si sarebbe sfracellata

sui massi, quel fiume non era che un rigagnolo d’acqua.

‹‹O affogata o sfracellata sempre morta sarei, che poi è quello che volevo.››

‹‹Ma perché?›› chiesi.

‹‹Ti importa forse…. non so neanche chi sei e tu non sai chi sono io.››

‹‹Possiamo rimediare presentandoci›› dissi e ci presentammo.

Viola era il suo nome.

Quel giorno facemmo due passi, scendemmo dal sentiero fino al ruscello, si

lavò il viso e si passò le mani tra i capelli, io la guardavo non era male, aveva

un bel fisico, soprattutto un bel seno prosperoso.

Aveva due occhi scuri molto espressivi, però tristi, non era molto bella in viso

ma in totale piacente.

Insistetti, volevo sapere perché volesse morire.

‹‹Morirò comunque prima o poi.››

‹‹Ma è il destino di tutti›› dissi.

‹‹Il mio è già segnato›› ripeté e si rattristò.

‹‹Vedi quel cardo›› disse.

‹‹Quale?›› chiesi. Non sapevo certo cosa fosse un cardo, mi mostrò una

pianta selvatica con dei fiori rosso porpora, aveva dei fusti eretti tra i 50cm e

il metro, con foglie rade e spinose e in cima quei fiori.

‹‹Sai›› disse, ‹‹lo chiamano Cardo Triste proprio come me›› fece una breve

pausa e continuò ‹‹anche se contiene la tristezza e l’allegria.››

‹‹Come›› dissi, ‹‹spiegami tutto›› non è che mi interessasse molto, ma era un

modo per parlare, per distoglierla dall’idea del suicidio.

‹‹Sai in base alla "dottrina dei segni", gli antichi erboristi lo consideravano la

pianta dell’allegria, le sue foglie immerse nel vino, rendono chi lo beve, molto

allegro.››

Risi di cuore.

‹‹Non scherzo›› disse, ‹‹è tutto vero, io studio le piante spontanee, è una mia

passione, un modo per non pensare.››

‹‹A cosa›› chiesi, ‹‹al suicidio?››

‹‹Be›› disse, ‹‹per oggi è passata, ci sono giorni che cominciano male e lo

sconforto è totale.››

‹‹Ma cos’hai? Perché vuoi morire?››

‹‹Andiamo›› disse, ‹‹accompagnami a casa, poi ti farò accompagnare da

mamma, stai alla caserma vero?››

‹‹Certo›› dissi, mi precedeva di qualche metro, prima avevo notato che

zoppicava lievemente, ma avevo pensato a qualche contusione o slogatura

nel tentativo di suicidio di prima; adesso invece mi era chiaro: aveva una

gamba leggermente più magra dell’altra e dalle suole, qualche centimetro più

corta.

Arrivammo in vista di una bella casa. ‹‹Acqua in bocca con mamma intesi?››

‹‹Va bene›› dissi.

La madre uscì sul pianerottolo, era uguale alla figlia un po’ più in carne e le

gambe normali. Lei le gridò: ‹‹Mamma c’è un militare appiedato, lo porti alla

caserma?››

‹‹Certo, però possiamo prima offrirgli qualcosa, le va un buon caffè?›› disse.

‹‹Certo, è gentile›› dissi.

L’interno era accogliente e fresco, il sole d’agosto sulla strada mi aveva un

po’ cotto.

Presi con gusto il caffè freddo, poi mi accompagnarono entrambe alla

caserma.

Arrivati, la madre rimase in macchina, lei venne al cancello. ‹‹Non so come,

ma voglio rivederti›› le dissi.

Lei disse: ‹‹Dove sto lo sai, quando vuoi….››.

Ero confuso, non sapevo che fare, per due giorni mi pervase un senso di

inquietudine.

Finché tornai a cercarla, facevamo lunghi discorsi su tutto.

A volte parlavamo di fiori e piante, andavamo al vecchio mulino per giorni e

giorni, era gioiosa, stavamo bene insieme.

Finché un giorno, mi spiazzò, lasciandomi senza fiato.

‹‹Perché non mi metti mai le mani addosso?››

Rimasi muto…

‹‹L’ho capito che ti piacciono le mie tette, ti vedo sai sbirciare appena mi

abbasso!››

Non sapevo né che fare né che dire.

‹‹Che diamine, allunga le mani, toccale!››

Avevo 19 anni, un’educazione bigotta e moralista. Venivo da un piccolo

paese, non ero preparato, proprio non lo ero….

Scoppiò a piangere di colpo.

‹‹È il mio destino, agli uomini faccio solo compassione, pena; anche quando

andavo a scuola, ero l’amica di tutti ma mai nessuno andò oltre con me.

Nessuno mai mi ha toccata, la mia anomalia, la mia malattia mi emargina.››

Piangeva, le carezzai i capelli ma non sapevo che dire.

‹‹Non so che dirti›› dissi.

‹‹Non dire nulla non serve, ti faccio schifo vero?

Ti ripugna toccarmi, ho 27 anni e nessuno mai mi ha baciata, toccata,

amata.››

Le saltai addosso e fu sesso e fu amore.

Bellissimo, dolcissimo.

Avevo avuto altre donne, ma con lei fu sesso, amore forte; l’attrazione

sessuale era enorme, mi eccitavo fino a raggiungere vette altissime.

Lei era solare, i suoi occhi sprizzavano gioia.

‹‹Non mi ami, lo…. lo sento, ma mi desideri questo lo so, mi fai raggiungere

la gioia e sono felice anche se i mesi passano e andrai via.››

Mi mise la mano sulla bocca.

‹‹Non dire nulla›› disse, ‹‹non fare promesse che non puoi mantenere, sei più

giovane di me ed è giusto così.››

Riuscii solo a dire: ‹‹Grazie riesci sempre a parlare per me.››

Continuammo i nostri incontri finché, inesorabile, arrivò la fine. Non potei

affrontarla, guardarla negli occhi.

Fuggii via di notte come un ladro vigliacco, le lasciai un biglietto nel quale

non potei scriverle che "perdonami di non amarti, ma ti voglio bene davvero".

Non potevo vederla sul quel letto, dovevo uscire di li. Andai fuori fino al

ruscello, il paesaggio era cambiato, gli anni erano trascorsi lasciando il

segno oltre che su noi, su tutto.

Dieci lunghi anni erano trascorsi. Non le scrissi mai, né le telefonai, in quegli

anni avevo avuto altri amori ed ero prossimo al matrimonio con Silvana, che

amavo tanto.

Ma ero triste, avevo un peso sul cuore. Lei in quegli anni era stata discreta,

per le grandi festività mi mandava una cartolina con su scritto

"Auguri ciao".

Camminavo finché rividi il Cardo triste, era eretto sul bordo della strada.

Pensai chissà chi di noi fosse più triste. Una voce mi fece sobbalzare, era

sua madre.

‹‹Non ho capito›› dissi.

‹‹L’hai resa felice, prima di incontrare te fin da ragazzina, tentò varie volte il

suicidio ed era sempre triste, depressa; finche sei apparso tu.

Da quell’anno fino alla fine é stata felice, solare, anche quando la malattia

era ormai avanzata.››

‹‹Di cosa è morta?››

‹‹Fin da bambina, a parte la menomazione fisica, soffriva di un tipo di

leucemia che andò sempre peggiorando.››

"L’hai resa felice…." mentre il treno mi riportava verso casa pensavo a quelle

parole.

"L’hai resa felice


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© Nunzio Cocivera