ADESSO

ROMANZO

di

BUDETTA GIUSEPPE COSTANTINO

 

Disegno sul frontespizio di Budetta Giuseppe Costantino

 

 

Anima mia, non aspirare alla vita immortale,

ma esaurisci il campo del possibile.

 

Pindaro, III Pitica.

 

 

Il decesso fu in ospedale a 87 anni per emorragia cerebrale. Anni prima, aveva subito vari interventi chirurgici alle carotidi e bypass coronari. La salma nella cripta di famiglia. Alla cerimonia funebre nel piccolo cimitero di paese, i familiari tra cui l’unico figlio e pochi altri.

Sulla lapide foto e dicitura:

 

 

Alterio Giorgio 

Nato il 16/4/1920 e morto il 27/5/2009

 

Requiescat in pace.

 

 

Era iniziato il processo di decomposizione cadaverica che resuscitò in altra sede con un corpo giovanile, di certo sotto i quaranta e passa.

 

 

 Giornata di pieno inverno con fogliame ai bordi inferiori dei palazzi. Sotto gl’immensi alberi secolari lungo i marciapiedi, uno spettacolo irreale si spiegava. Aveva preso la direzione di Piazza Grande ad ascoltare il comizio. Dalla parte opposta in Piazza Piccola, campeggiava la statua di Dante rappresentato a sfogliare un libro. Alterio Giorgio si era sollevato i baveri, aggiustato la sciarpa e spinto le mani nelle tasche del cappotto. Folate gelide lo facevano lacrimare e tirare in dentro il collo. Vasti marciapiedi ai lati della strada silenziosa e fila di platani centenari, spogli e scheletrici nella nebbia che si diradava. Osservando quei tronchi di legno scuro e farciti di pioggia, Alterio Giorgio pensò: "anche lì dentro c’è vita". Una vita che emetterà nuovi germogli nella breve primavera su questo pianeta gelido. Non era la prima volta che Alterio Giorgio provava questa sensazione che lo prendeva alla gola, inesorabile e lo riempiva d’angoscia. Tutto appariva confuso, senza uno scopo preciso. Passato e futuro s’incrociavano, entrambi privi di desideri e di dolori, entrambi privi allo stesso modo di peso e di forza. Gli orizzonti erano in equilibrio. Per un attimo strano, i bilancini dell’esistenza si pareggiavano. In bilico instabile, la vecchia e la nuova esistenza. Il destino non era mai più forte del coraggio e della fiducia che gli si opponevano. Se fosse divenuto insopportabile, ci si poteva uccidere. Era bello saperlo, ma era anche bello sapere che nulla era perduto, finché si era vivi. Di nuovo in vita. Vita da vivere ancora.
Scorse una sagoma umana procedere in senso opposto, sullo stesso marciapiede: uno con cappello e incappottato. Camminava guardando davanti a sé. Avvicinandosi di più vide che era uno della Commissione. Era il dott. Lojacono Diacono. Non era in realtà dottore, ma in ufficio tutti lo chiamavano così. A pochi passi lo salutò: "Buon giorno, sono Alterio Giorgio. Dottore, lei ha in esame la mia pratica."
L’altro sembrò avesse fretta, ma decise di rispondere: "Buon giorno. Per la pratica, dovrà ancora aspettare. Glielo dissi: c’è molto lavoro arretrato."
"Mi dica almeno una data di scadenza."
Quello sembrò urtato. Disse andando via: "Non lo so. Nessuno di noi lo sa. C’è troppo lavoro. Arrivano di continuo. Non ci assillate. Quando sarà il momento vi chiameremo. Non c’è fretta. Buongiorno."
Alterio Giorgio fu quasi offeso e lo lasciò senza rispondere al saluto. Tempo prima era salito nell’ufficio del dott. Lojacono, ma la segretaria con toni bruschi gli aveva detto le stesse cose: "Aspetti la chiamata. Quando verrà il suo turno la chiameremo. Molti meritano l’inferno e non lo sanno. Meglio stare in aspettativa, depositati in questo limbo. Se la Commissione decidesse che lei merita l’inferno?"
"Sì, ma non potete tenerci sul lastrico ad infinitum."
"Per alcuni è la cosa migliore. Che vi credete che è facile andare in paradiso? Tutti pensano di avere le carte in regola."
"Sì, ma è nostro diritto sapere…"
"Qui non esiste il diritto. Non esiste il diritto così come è inteso sulla Terra. Poi, la cosa più importante… lo stipendio... lo stipendio che prendo è uno stipendio di merda. E’ già molto quello che faccio."
Con stizza l’impiegata aveva sbattuto sulla scrivania un mazzo di fogli. Vide che era snella, la giacchetta della divisa le ballava ai fianchi, il seno inesistente ed un esuberante foulard le cingeva il collo. Sembrava anoressica. La guancia infossata ed il naso appuntito accentuavano l’aspetto di una che non amasse il cibo. Doveva essere alquanto isterica. Alterio Giorgio aveva preferito abbandonare il campo. Un impiegato nel corridoio gli aveva detto:
"Pazienza, è isterica. Siamo in pochi ed il lavoro è enorme. Non ci sono neanche incentivi economici."
Titubante, Alterio Giorgio aveva risposto: "Scusi, posso rivolgermi a lei la prossima volta?"
"Deve aspettare. Quando verrà il suo turno la chiameremo. Chiamiamo tutti. Passerà del tempo, ma stia certo che la Commissione prima o poi la chiamerà per normalizzarle la situazione. Qui non ci sono imbrogli, o raccomandati. C’è solo molto lavoro arretrato."
Aveva afferrato dalla tasca cinquanta euro ultratombali e li aveva messi in mano all’impiegato dicendo: "Mi faccia il favore, mi faccia vedere almeno dove sta la mia pratica."
Sospirando, stirandosi in mano il pezzo da cinquanta per controllare, guardandosi attorno e non essendoci occhi indiscreti, l’impiegato (dott.) Lojacono Diacono aveva detto: "Vabbè, visto che insiste, venga con me."
Si era messo in tasca i soldi e aveva lasciato su un tavolo una cartellina rossa. Erano scesi per una scala a chiocciola al termine della quale l’impiegato (dott.) Lojacono Diacono aveva acceso delle luci, girando la manopola di un interruttore a muro. Alterio Giorgio si era accorto di stare come in una cava, un lungo corridoio con volta a botte che si prolungava a dismisura, sia alla sua destra che a sinistra. Forte tanfo di chiuso e di cartame ammuffito. Si vedeva che c’era cattiva aerazione. Lungo i muri, alti scaffali di ferro nei quali erano ammonticchiati infiniti contenitori pieni di pratiche. Era dunque quello l’archivio centrale da cui la Commissione traeva i dati da elaborare per ogni resuscitato. Chiese allarmato: "Sono tutte pratiche da esaminare?"
"No, non si preoccupi."
"Già. Le pratiche di quelli ricchi seguono un’altra trafila."
"Lei che ne pensa? Ogni mondo è mondo, caro lei. Però qui ci sono tanti documenti vecchi, cartame che non serve e che nessuno provvede ad incenerire."
"Almeno che si provveda a cambiare l’aria. Si faccia aerazione se no qui ammuffisce tutto."
"Coi soldi che ci danno, è anche troppo."
"Il segreto sono i soldi. Valgono sempre."
"I soldi esistono anche qui."
Seguiva perplesso l’impiegato (dott.) Lojacono Diacono che camminava davanti, poco distante. Sotto le scarpe, il pavimento di legno aveva sorcini cigolii. Quello chiese in tono sbrigativo: "Quando è morto?"
Alterio Giorgio disse: "Morii il 27 maggio del 2009."
"Quest’anno quindi. E che fretta c’è? Temo che dovrà attendere ancora un annetto. Ecco lì la pratica. Ci diamo uno sguardo di pochi minuti. Devo tornare subito su, altrimenti gli altri s’insospettiscono. Ci sono colleghi spioni, gente di merda che parla male di me col capo ufficio."
Il (dott.) Lojacono Diacono era salito su una scala. Stando in bilico, aveva esaminato l’etichette sui faldoni e ne aveva estratto uno. Ridiscese e lo aprì, poggiandolo su un gradino della scala. Lojacono Diacono (dott.) lesse:
"Lei è Alterio Giorgio, nato il 16 aprile del 1920. Lei ha cessato di esistere appunto quest’anno il 27/5/2009. Una lunga vita. Queste vede? Sono tutte le copie dei versamenti che lei effettuò a favore di ordini religiosi e per opere di beneficenza in genere. Vediamo: duemila euro circa in tutto. Ben poco."
Lo guardò sottecchi con severità. Lui rispose facendo finta di schermirsi: "Facevo molta beneficenza."
"Guardi, è poca. Si fidi. Non so... da uno sguardo superficiale, lei sì e no ce la fa per il purgatorio. Poi leggo qui questa nota scritta a penna dal capo ufficio."
L’impiegato leggeva frasi scribacchiate dietro la copertina: "Lei è andato solo 318 volte a messa, nella sua vita. E’ poco. Questa è un’altra nota negativa."
"Allora sono perso."
"Non dico questo. Uno può andare a messa tutte le domeniche e pensa ad altro. Pensa ai soldi, alle donne... Mentre il prete officia, lui fa finta di seguire la messa, ma pensa ad altro. Pensa agli affari."
Con scimmiesca rapidità, l’impiegato era risalito al sommo della scala. Si era messo ad esaminare altri attestati, scartabellando nei falconi. Dall’alto della scala vatalijò: "Non è detto. C’è da discutere. E’ una cartella corposa, vede?"
A quell’altezza, la lampadina pendula dalla volta, illuminando la faccia dell’impiegato generava inusuali ombreggiature verso la gorgia e nelle zone opposte alla luminescenza. Alterio Giorgio disse: "Veda un po’ lei. Veda un po’ di metterci una buona parola. Lei che è così buono."
Scendendo con lentezza e riponendo la scala contro la parete, aveva detto: "Torni tra sei mesi e ne riparliamo. Però torni con una mancia più grossa, molto più corposa. Mi raccomando."
"Mi tolga una curiosità."
"Le curiosità costano."
Alterio Giorgio fu indeciso se sborsare o no un nuovo pezzo da cinquanta. Alla fine, tirò il portafogli ed asportò i cinquanta ultraterreni euro. Con la quota di mantenimento che la Commissione gli elargiva non se la spassava alla meglio, però qualche soldo da spendere extra poteva permetterselo.
"Tenga."
"Cos’altro vuole sapere?"
L’impiegato aveva messo al sicuro la banconota nel portafogli. Alterio Giorgio disse: "Ma come fate a conoscere tutti i fatti della gente? Come deducete che sulla Terra io fui a messa solo per 318 volte?"
"Eh, caro mio. Le vie della Commissione sono infinite. Spiamo i computer terrestri. Rileviamo i dati in tempo reale. Possediamo i dati di tutti quelli che arrivano qui. Abbiamo collegamenti con le anagrafe municipali, colle prefetture, coi notai, le chiese… Sappiamo tutto di ogni trapassato. Rileviamo di continuo dati. Anche se non sembra, noi lavoriamo sodo. Lavoriamo solo per voi. Per esempio, dalle sue carte risulta che lei era medico."
"E che c’entra questo con la salvezza dell’anima?"
"Per la salvezza dell’anima no, ma aspetti e vedrà che la Commissione le riconoscerà il servizio prestato sulla Terra come medico e la chiameranno a fare le medesime cose qui."
"Questo non è un fatto negativo. Però non sapevo che la Commissione sapesse tutto di me, intendo della mia vita passata. Sono prerogative accessibili ai santi, agli angeli, all’Onnipotente."
L’impiegato si era auto censurato e cambiato tono: "Non posso dirle tutto, comunque. Però una cosa le dico: è possibile che l’immagine di una persona travalichi in tempo reale lo spazio ed il tempo ed arrivi fin qui, purché ci siano rivelatori speciali che noi della Commissione regolarmente possediamo. Ecco come ricaviamo i dati. Vi spiamo. A noi basta sapere il nome e cognome della persona resuscitata, il suo indirizzo terreno e pochi altri dati anagrafici ed il gioco è fatto. Stampiamo la documentazione di ogni trapassato e ci facciamo un nutrito faldone che la Commissione a tempo debito esaminerà."
"Voi della Commissione condannate ed assolvete in base ai dati che i computer terrestri vi spediscono."
"Sì, più o meno."
"I condannati... quelli che la Commissione condanna ai lavori pesanti... quelli che chiamate workers, devono produrre ricchezza."
"Esatto. Ma non sono come gli schiavi che c’erano una volta sulla Terra. Adesso con le sofisticate tecnologie lavorano, questo sì, ma sono compiti esecutivi perché il lavoro manuale è espletato quasi interamente da robot. Poi hanno anche il fine settimana libero ed un emolumento settimanale. Però sono in stato di semilibertà, hanno rigidi obblighi lavorativi e di residenza. Si chiamano workers, appunto. C’è la speranza che si riabilitino col lavoro e non vadano più all’inferno come meriterebbero. Il lavoro nobilita l’uomo."
"Capisco."
"Però io non faccio parte di questa Commissione. Tutti lo sanno, lei che è un novizio non lo sa. Glielo dico. C’è una Commissione Alta che dirige e giudica e c’è una Commissione Bassa che esegue le decisioni prese dall’alto. Capito?"
"Come sulla Terra."
"Non facendo parte di nessuna delle due Commissioni, molte cose mi sono ignote come a lei."
"Anche voi impiegati qui avete molti misteri da scoprire."
"Ora andiamo se no, s’insospettiscono."
Lojacono Diacono (Dott.) si era guardato attorno cogli occhi volpini. S’era pulito il naso adunco ed aveva riposto gli occhiali nel taschino della giacca. Di spalle, si vedeva che aveva un po’ di gobba. Alterio Giorgio aveva bisogno di capire, ma quello aveva fretta.
"Ultima cosa."
"Cosa adesso?"
"Calza un paio di scarpe in cuoio nere corvine con fibbie, marca NeroGardini, prezzo 130 euro. Come faccio a sapere ciò? Eppure lo so."
"Lei ha nel taschino una stilografica Parker – oro, prezzo – euro. Come faccio a saperlo? Semplice. E’ colpa della nostra resurrezione su questo pianeta. Tutti hanno dei pallini, tendenze, manie: molti fanno collezioni di vario tipo oppure come fa lei, o io, conosciamo all’istante la marca ed il prezzo degl’indumenti, cinghie e scarpe compreso. La chiamano la Sindrome Ultratombale (S.U.). Tutti ne siamo affetti. La sua mania, quella di riconoscere gl’indumenti che uno porta, è la più diffusa, ma ce ne sono di strane come coprire tutte le pareti della propria casa di quadri, oppure il voler scoprire per forza che tipo e che colore è il fazzoletto che uno tiene in tasca."
L’impiegato era salito in cima alla scala a riposizionare il faldone che stava nella fila più in alto. Vataljò di nuovo verso il basso: "Non si scoraggi. Venga a trovarci spesso. Segua l’iter... s’informi nei piani superiori, trovi una raccomandazione giusta tra quelli della Commissione alta."
Ritornati ai piani superiori, Alterio Giorgio lo salutò. Quello gli disse a bassa voce: "A disposizione per qualsiasi cosa."
Al presente, Alterio Giorgio usciva da casa frettoloso. Si era sollevato il bavero del cappotto, aggiustata la sciarpa di lana Burberry, infilato i guanti Malìparmi. Aveva chiuso a chiave il cancelletto che circondava la breve aiuola davanti casa e dopo alcuni passi aveva incrociato il (dott.) Lojacono Diacono. Avendo rimpianto i soldi elargitigli e l’inutile colloquio, andava spedito verso Piazza Grande, inseguito dalle ventate artiche. La nuova esistenza innocente ed avventata, si volgeva alla tentazione ed alla varietà multicolore di una vita più facile, come una pianta da poco spuntata sotto una nuova luce. La nuova esistenza era tutta protesa verso l’avvenire e lui non poteva darle che uno scialbo passato. In lontananza su un piccolo rialto, oltre la filiera di eucalipti e di platani secolari, il Palazzo della Commissione Centrale. Il mastodontico edificio, rivestito di marmo si prolungava per circa mezzo chilometro sul lato destro del corso. Sul cornicione, campeggiava nella parte centrale la scritta fosforescente con smagliante luminosità:

PALAZZO DELLA COMMISSIONE GOVERNATIVA.

L’insegna visibile da tutta la città, sia per la forte luminescenza dovuta ai lantanidi, sia perché il palazzo di cinque piani stava su un rialto. L’insegna faceva contrasto col cielo plumbeo.
Strada facendo, gli piacque ricordare che tutti gl’impiegati del Palazzo della Commissione - uomini e donne - avevano quella specie di divisa addosso: giacchetta verde con uno stemma dorato sul taschino, pantaloni, o gonne scuri. Alle maniche, avevano dei ghirigori dorati che dovevano servire a far distinguere un impiegato di gruppo B da uno di C, o di A. Le scarpette tutte nere, basse e con le fibbie. Aveva notato che tutti avevano le scarpe lucide e la divisa ben tenuta. Gli uffici erano puliti e le scrivanie degl’impiegati tutte in ordine. Su ogni scrivania campeggiava al centro il grigio monitor di un computer. Tranne queste ricercatezze, regnava un lassismo da far paura. Nei locali dei sotterranei dov’era stato con Lojacono Diacono (Dott.) i faldoni delle pratiche erano ammassati alla meglio. C’era odore di muffa ed i mucchi di scartoffie che stavano in basso erano pieni di polvere, ingialliti, contorti ed accartocciati. Qua e là, le mura di quei locali sotterranei trasudavano rigagnoli d’acqua che bagnava il pavimento e s’infiltrava tra le carte ammassate sugli scaffali. Nessuno si curava di farci fare dei lavori. Alcuni dei faldoni a contatto col pavimento dovevano essere inservibili. Alterio Giorgio si era reso conto che quei curricula servivano e non servivano, vista la trasandatezza con la quale erano stati ammassati lì. Lojacono Diacono doveva essere un impiegato di gruppo B, prossimo a passare in A. Alterio Giorgio pensò che somigliavano ai dipendenti Alitalia sulla Terra. Ogni tanto emergevano in lui spezzoni di vita passata. Non era come sulla Terra che ricordava interi avvenimenti. Da trapassato, ricordava solo vaghe immagini in riferimento alla vera vita, vissuta sulla Terra. Nella mente, emergevano ricordi come fradice taccole che appena galleggiano sulla superficie di uno stagno. Ricordi di quand’era ragazzo davanti a scuola. Ricordi di quando pregava in chiesa. Non era padrone di quei ricordi. In lui, il passato emergeva a spezzoni, quando, come e dove voleva. Ricordava le cose come in un vecchio film, visto molto tempo addietro. In quel film, c’era uno che gli rassomigliava. Seguendo la logica, quello che gli rassomigliava in quel vecchio film non poteva che essere lui. Chi se no. Era lui calato nella vita terrena. Ricordava ciò che gli era concesso ricordare. Ciò che forse la Commissione aveva deciso che ricordasse in questa seconda vita da resuscitato. Sbiaditi ricordi, di seconda mano. Ricordi che qualcuno uguale a lui gli aveva prestato.
Nella passata vita, essendo stato medico, ricordava alcune nozioni di base come per esempio che ciò che la mente conosce proviene dal cervello, non esistendo un approccio diretto col mondo esterno. La sua mente risvegliata nella nuova esistenza ricordava dunque della passata vita terrena. Se i ricordi erano quelli, allora anche la mente che aveva nel cranio era quella della passata esistenza. Resuscitato con la mente e col corpo di prima. Però poteva essere un pazzo paranoico che pensava di essere un morto resuscitato ed invece non era altro che uno schizofrenico. Come poteva essere che fosse resuscitato in un mondo per molti versi simile alla Terra? Resuscitato con proprio corpo e con la propria mente? Ricordò le ipotesi di alcuni scienziati terrestri come Llewellyn Sue (2009), Holland JH (1998) e Johnson S. (2001). Gli scienziati in questione ipotizzavano che la malattia schizofrenica fosse uno stato di disordine mentale, sospeso tra gli stati di veglia, di sonno e di sogno, tra Chaos mentale ed un tipo superiore di ordine cerebrale. La schizofrenia sarebbe una forma di prigione mente/cervello che comporta l’insorgenza di stati confusionali, ondulanti tra veglia e sogno. Nella normalità, sia lo stato di veglia che di sogno sono funzionali. Nella schizofrenia, entrambi gli stati (mentali) sarebbero disordinati: né la veglia e né il sogno sarebbero propriamente funzionali, per cui il simultaneo rapporto mente/cervello sarebbe in ultima analisi incompatibile. Essendo stato un medico, Alterio Giorgio ebbe infine la convinzione che uno schizofrenico non ha pensieri lineari e non avrebbe di certo ricordato gli studi di Llewellyn Sue (2009), Holland JH (1998) e di Johnson S. (2001). Dunque, che lo volesse o meno era per davvero resuscitato in un nuovo mondo.
Fu a pochi passi da Piazza Grande. Il profumo umido di acqua e fogliame in putrefazione saliva da dove il fiume piegava ad ansa. Si era fermato ad osservare il declivio innevato, visibile tra due palazzi distanti tra loro una diecina di metri. C’era una specie di ringhiera e da lì si vedeva un pezzo di terra e nevischio declinare verso l’ansa del fiume nerastro; si vedevano alberi scuri col fradicio fogliame, accumulato tra le nerborute radici. Era visibile la parte della città che risaliva su uno sperone di colle, dall’altra parte. Tutte quelle cose davano tristezza ad Alterio Giorgio e gli rafforzavano la coscienza dolorosa di una solitudine senza aneliti, di giorni vuoti e senza senso, dove l’amore non contava più. Mondo vuoto e vuota esistenza novella.
C’era la folla e doveva mancare poco per il comizio. In fondo, il palco avvolto da una stoffa che sembrava velluto nero, con frange dorate mosse dal vento. Dietro il palco, una grande croce di legno sovrastava la scena a sicuro monito. Il mastodontico crocefisso alto quasi dieci metri imponeva la riverenza ed il rispetto. Alcuni osservandolo si erano fatti il segno della croce. Qualcuno si era messo a pregare in piedi davanti al palco vuoto. I più mostravano indifferenza. La folla si addensò. C’erano signore impellicciate in lieta compagnia di uomini incappottati. I gruppi sparsi e disomogenei. In ogni gruppo si parlava, si discuteva animatamente, o si dicevano cose liete in attesa del discorso. Tutti tacquero. Erano arrivati gli oratori. Una squadra di quattro vigili incappottati, inguantati (guanti bianchi) e cappelli alti come i loro colleghi terreni inglesi aveva preso posizione ai quattro lati del palco. A tratti, il vento sommuoveva la frangia d’oro degli addobbi pendenti dai bordi del palco quadrilatero. I fedelissimi s’erano stretti davanti al palco per fare subito tesoro delle frasi che gli oratori avrebbero testé pronunciato. Nonostante il freddo, la folla che riempiva tutta, o quasi Piazza Grande muta e solenne se ne stava lì ad aspettare. Uno con cilindro nero cominciò a leggere al microfono: "Signore e signori, ho l’onore di presentarvi questo pomeriggio il Capo Commissario che v’illustrerà la situazione. Molti premono per le pratiche inevase. Tutti vogliono sapere che destino ultraterreno meriteranno. Tutti attendono una risposta affidabile. Il dott. Caprone, persona molto accorta e saggia, v’illustrerà la situazione che non è delle più rosee, sebbene si facciano sforzi enormi per venirvi incontro. Dopo il Capo Commissario, vi parlerà il Tribuno Marco Porzio Catone il sindacalista che da sempre è dalla vostra parte, in particolare di quelli con sussidi più bassi."
Decine e decine di facce rivolte in direzione del palco quadrilatero; decine e decine di sguardi calamitati in direzione di un solo punto. Le telecamere della televisione di Stato rivolte come gli occhi della gente, agli oratori ben illuminati dai fanali fosforescenti nei quattro angoli del palcoscenico. In Piazza Grande ci fu il vuoto e grave silenzio. Profondo silenzio d’attesa che sarà riempito dalle parole degli oratori. Quello col cilindro si allontanò dal microfono e si avvicinò uno omologo con un cappello questa volta più moderno, meno vistoso, a forma di bombetta grigia e con sciarpa colorata. Voce maschia e solenne tono. Si vedeva che era il capo della Commissione Eterna. Era tosto, elegante e deciso come un leader. Per qualche secondo, osservò con ossequio il grande crocefisso, si girò verso la folla e tossicchiando cominciò a dire: "Signori, stiamo facendo passi da gigante. Tra qualche mese l’intero servizio sarà informatizzato e ogni trapassato conoscerà in tempo reale la effettiva destinazione. Non ci saranno più tempi morti. Morti per modo di dire, visto che qui lo siamo tutti. O meglio, siamo dei morti resuscitati. Al presente, bisogna smaltire gli arretrati ed i tempi di attesa sono quelli che sono, ma faremo del nostro meglio. State calmi. Non cadete nella tentazione di voler sapere tutto e subito. Non cedete all’isteria di accampare diritti assurdi. Ogni cosa ha il suo tempo di maturazione e specifiche difficoltà. Stiamo lavorando per voi. Per adesso, le cose importanti sono due: la qualità dei dati che raccogliamo e la facilità di accesso ai fascicoli che noi della Commissione Superiore dobbiamo valutare e discutere. Un motivo però di consolazione ce l’abbiamo tutti: sulla Terra eravamo transeunti. Qui invece comunque stiamo per entrare nell’eternità dopo una permanenza media di oltre un secolo e mezzo. Se siamo resuscitati qui un motivo ci dev’essere. Innanzitutto, adesso siamo sicuri che stiamo nell’aldilà sia pure a forma di Limbo. Qui vivremo per un secolo e mezzo in duplicato corpo giovanile che non invecchia e che alla fine, scaduti i termini si scompare e basta. Per centocinquanta–centosessanta anni abbiamo di nuovo questi veri nostri corpi con cui mangiare, bere e godere le gioie della rinnovata vita. Gioite dunque; non siate cupi. Qui non si pecca più, qualunque cosa si faccia tranne che rubare, sobillare, oppure uccidere. La pena capitale non è abolita. Solo chi uccide il simile anche per legittima difesa sarà punito con l’esecuzione capitale che prevede la decapitazione. C’è da essere come minimo soddisfatti del nostro nuovo stato. Solo un pazzo potrebbe pensare a delinquere, rinunciando a questa nuova esistenza. Purtroppo i pazzi non mancano mai. Ma vigileremo. Statene sicuri: noi per volontà divina vigileremo. Ultimo ragguaglio, amati concittadini: molti chiedono perché non siano presenti popoli di altre religioni. In realtà ci sono, ma non sappiamo perché, sono pochi. Dal nostro censimento risulta che la stragrande quantità dei resuscitati sono europei; tra questi gli Italiani ed i Francesi sono la stragrande maggioranza. Ignoriamo i divini disegni, ma se è così una ragione c’è. Molti sostengono che tutti resuscitano, chi qui su questo pianeta copia perfetta della Terra e chi su altre copie della Terra, ma in diverse configurazioni spazio-temporali. Ricordatevi infine: la pazienza è dei forti. Beati quelli che sopportano."
Il relatore fece uno stacco, girando lo sguardo a ventaglio sulla piazza e sulla gente. Voleva far breccia nel cuore della gente, lì assiepata. Voleva che fossero rapiti dalle promesse di un futuro radioso nel mondo ultratombale e nell’altro ancora da visitare, visto che la sopravvivenza alla morte corporale era stata per tutti i presenti una realtà. Alla fine, il relatore aveva sollevato lo sguardo. Osservava adesso gli edifici lontani e vicini a corona intorno alla piazza. Guardava senza uno scopo preciso. Infine, si decise a parlare. Disse: "Adesso vi parlerà il mio collega, il tribuno Marco Porzio Catone e vi rivelerà aspetti inusitati di questo nuovo mondo. Egli spera di chiarire molti dei quesiti impellenti che voi ponete alla Commissione."
L’oratore si fece da parte e avanzò una nuova figura anch’essa in cappotto scuro, sciarpa e cappello. Alcuni della folla si erano assiepati sui marciapiedi per guardare meglio. Altri allungavano i colli col bavero sollevato e la mano inguantata sul petto per coprirsi di più. Ci furono attimi di ossequiosa attesa. La voce forte e decisa del nuovo oratore disse: "Popolo della seconda esistenza, accettiamo la nuova vita come un inaspettato prolungamento di quella normale, di quella trascorsa sulla vecchia Terra. Perché siamo di nuovo vivi? Abbiano fatto indagini ad hoc e ci risulta che quelli che sono morti sulla vecchia Terra con forti motivazioni a non morire, adesso sono di nuovo vivi qui con un corpo giovanile. Presumiamo che altri appartenenti ad altri popoli di Africa, di Asia, di America e di Oceania siano ospitati in pianeti gemelli, ma in diverse dislocazioni spazio temporali. Così qui su questo pianeta, dal censimento generale che la Commissione ha effettuato, saremmo circa seicento milioni, sparsi per i quattro continenti. Una cifra non eccessiva, equivalente a quella dell’umanità sulla vecchia Terra agl’inizi dell’era cristiana. Siamo qui in attesa del definitivo smistamento. Sia fatta la Loro volontà e nell’attesa, seguite le istruzioni diramate di volta in volta dalla Commissione. Fidatevi della Commissione e tutto procederà liscio. Se siete stati resuscitati secondo divini voleri, qualcosa di positivo in voi tutti c’è. Sperate, non temete."
Pausa non molto breve. Nessuno del popolo osava fiatare. Erano cose d’importanza capitale ciò che i Commissari rivelavano al pubblico. Folate di vento artico costringevano la gente a tirare il collo nei cappotti e nelle pellicce. Con più veemenza, riattaccò Marco Porzio Catone: "Altro quesito che molti qui ci pongono è: da dove derivino i soldi degli emolumenti elargiti come sussidi a tutti i resuscitati. Alcuni obiettano che nessuno lavora. Non è vero. C’è chi lavora. Alcuni di voi facendo indagini non ortodosse lo hanno comunque scoperto. Ci sono resuscitati con lo status di lavoratori manuali (workers) e tecnici esecutori. Sono quelli che sono resuscitati con gravi peccati, malgrado loro. Per lo più è gente di colore, derivante da popoli del terzo mondo. Noi gli forniamo cibo, vestiario e un giorno di riposo a settimana ed essi sono lieti di lavorare per la collettività; non protestano e spesso pregano per la sorte definitiva che li attende, passati i centocinquanta anni. Dove lavora questa gente con lo status di schiavo? Li teniamo raggruppati in capannoni. Dalle nostre indagini risulta che in percentuale sono più felici loro che noi trapassati occidentali. Comunque, sono essi che producono la ricchezza che consumiamo. Lavorano e si redimono. Lavorano e ci arricchiscono."
Uno della folla disse ad alta voce: "Bene. Così si fa."
La risata generale interruppe l’oratore che riprese fiato e parlò con più foga: "Concludo dicendo che anche se non vi considerate felici, almeno siate soddisfatti. Avete un onorevole sussidio che vi permette di vivere con agio la vostra nuova vita. Siete tutti giovani o giovanili; tali vi manterrete per centocinquanta anni–centosessant’anni e senza malattie. Al termine di questa nuova esistenza, ognuno scomparirà per altra sede.
Molti premono sulla Commissione per sapere se meritino il purgatorio, il paradiso o l’inferno. Ebbene sappiate. I dati che la Commissione ricava da ognuno di voi e riferiti alla trascorsa esistenza sono orientativi e non definitivi. Sono elaborazioni fatte dai colleghi dei centri di calcolo. Adesso, con l’avvento di sistemi computerizzati più sofisticati contiamo di accelerare le valutazioni e le assegnazioni. Però ripeto sono dati orientativi, rettificabili dagli Eterni qualora resuscitiate di nuovo, per la terza volta e vi presentiate al cospetto divino."
Ci furono lassi applausi. Alcuni gruppi si sciolsero subito. C’era chi aveva fretta di tornarsene a casa. Uno disse ad alta voce: "Fesserie".
Alcuni discutevano tra loro con le mani in tasca, sbattendo spesso i piedi a terra per il freddo. Alcuni indicavano la vicina trattoria dove prendere qualcosa di caldo, prima della cena.
Il discorso trasmesso via cavo su tutto il pianeta. In Piazza Grande, aleggiò lo scetticismo. Pochi si fidavano della Commissione, ma non c’erano alternative. La limousine nera cogli oratori era sfrecciata via, lungo il corso principale. Erano rimasti numerosi gruppetti di persone a ciarlare tra loro. Uno cominciò a dire ad alta voce: "E’ tutta una fregatura. Ci vanno solo i fessi all’inferno. Fregati in vita e qui. Dobbiamo affrettarci a prendere le firme per l’abolizione dell’inferno."
Un altro prese a gridare tra le folate di vento: "Dobbiamo indire il referendum abrogativo. La Commissione fa gl’interessi dei potenti. Non ho visto alcun ricco meritare l’inferno."
Un altro tra gli starnuti: " Possiamo accettare solo la divisione tra beati e condannati. Anche sulla vecchia Terra ci davano almeno una chance per riscattarci. L’inferno va abolito."
"Le eterne fiamme devono essere abolite."
"La condanna all’inferno è definitiva. Ci pensate?"
"Viva il referendum abrogativo."
"Ma lo avete capito che i parametri della Commissione non sono definitivi?"
"E’ vero. Uno che secondo la Commissione merita l’inferno può essere spedito in paradiso dall’alata Commissione, quella degli Eterni, quella definitiva. Quella che nessuno ha visto perché aerea come lo spirito. E’ quella Commissione che davvero vale. Per cui morale della favola, non ce ne fotte. La Commissione faccia ciò che vuole. Sono tutte stronzate."
"E’ solo nevrosi. Questo curriculum non serve ad un cazzo."
"Serve a dare potere alla Commissione."
Uno con fare da filosofo era saltato sul palco che gli addetti stavano smontando; afferrato il microfono si era messo a gridare eterne verità: "Stiamo qui per simboleggiare qualcosa di oscuro che nessuno di noi sa. Di certo, è che ognuno di noi serve per l’edificazione della città di Dio. In questo limbo, riscattiamo i peccati terreni."
Un operaio del comune incaricato allo smontaggio gli aveva tolto di forza il microfono di mano e lo aveva spintonato fuori dal palco. L’improvvisato messia aveva cercato di resistere, ma vedendo altri arrivargli contro minacciosi, aveva voltato le spalle e si allontanava dalla zona del palco in demolizione alzando pugni, protestando, ciarlando, vataliando con sbuffi di vapore orale.
Un gruppo di quattro uomini si era avvicinato al palco. Due stavano in disparte, stirandosi le dita inguantate e sbattendo i piedi a terra. Gli altri due si erano avvicinati al capomastro dandogli una busta con dentro biglietti di euro, cinquanta o cento euro. Gli stessi avevano distribuito buste con importi minori alla restante squadra degli addetti alla demolizione del palco. Il capomastro aveva fatto cenno solo per cinque minuti e quelli dissero di sì. Salito sul palco, uno dei quattro col microfono in mano disse alla folla che si diradava: "Signori, solo cinque minuti di attenzione. Vi parlerà il grande scienziato e premio Nobel Albert Einstein e subito dopo il suo collega Gödel. L’attenzione della folla ai nuovi relatori. Anche gli operai allo smontaggio con le mani in tasca mostrarono un certo interesse. Einstein aveva l’aspetto di uno al di sotto dei quaranta. L’anoressico Gödel gli stava di lato col collo tirato nel bavero impellicciato. Einstein non perse tempo e disse: "Signori, ho continuato qui le mie ricerche teoriche che in Terra mi fruttarono il Nobel. Che ci facciamo qui? Perché risorti con corpo giovanile? Nell’universo di cui la Terra era infima parte, imperava la II Legge della Termodinamica in base alla quale l’entropia non poteva mai diminuire. I giovani potevano invecchiare, ma i vecchi non potevano ringiovanire. L’uovo rotto non si sarebbe mai ricomposto. Invece qui, almeno per i nostri corpi, questa legge non vale. Viviamo per 150–160 anni, poi scompariamo all’improvviso. Tutto lascia intendere di stare in una nuova realtà."
Einstein estrasse dal cappotto un settimanale agitandolo in aria. Disse: "Signori, questo è il primo numero del nuovo settimanale scientifico IL GLOBO. Vi sono esposte le mie nuove tesi, volte a chiarire gli enigmi che la nuova esistenza pone. Comprate tutti IL GLOBO, in edicola a partire da lunedì prossimo."
Prese la parola il timido ed anoressico Gödel: "Signori, viviamo in un mondo dominato dall’indeterminazione… Non stiamo in un nuovo mondo, ma in quello di prima con alcune varianti spazio temporali. Leggete il GLOBO e molte cose vi saranno chiare."
Per la fretta, Einstein gli aveva quasi strappato il microfono di mano. Disse:  "Amici, una ultima cosa e sgombriamo il palco. Tutti si chiedono perché ci pervengano notizie dalla Terra tramite tivù e computer, ma non possiamo fare l’opposto: comunicare con gli amici terrestri. Sembra che sia possibile solo transitare dalla Terra a qui, ma non viceversa. Tutto questo ed altro troverete leggendo IL GLOBO. IL GLOBO, il settimanale d’informazione scientifica al modico prezzo di tre euro ultratombali."
Gödel avrebbe voluto aggiungere una delle sue frasi di logica, ma il capomastro fece segno che i cinque minuti erano passati ed aveva già afferrato alcune tavole tirandole giù. Gli oratori scienziati scesero dal palco ed andarono via senza salutare i lavoratori addetti alla demolizione e al trasporto delle infrastrutture.
Erano state accese le luci della città. La malinconia, come la nebbia e l’umidità penetravano negli angoli più bui e strisciavano lungo i marciapiedi silenziosi.
Alterio Giorgio se ne andò per la sua via. Stava rimpiangendo ancora i cinquanta euro elargiti sottomano giorni prima, a Lojacono Diacono (dott.) perché gli accelerasse la pratica. Il bello, o il brutto era che l’impiegato aveva detto di non far parte di alcuna Commissione Alta. Strada facendo, incontrò una donna tutta ammantata che di sfuggita lo guardò. Aveva una gonna scura lunga fino ai piedi. Una gonna di altri tempi sotto un cappotto con bavero impellicciato. In testa, aveva un cappello a cuffia anch’esso ottocentesco, d’imprecisata fattura e valore. Lui le disse: "Salve.
"Lei gli rispose. Al che lui disse: "Bella donna, fa freddo, vieni da me. Prendiamo qualcosa di caldo."
Lei si fermò, ci pensò sopra e fece cenno di sì guardandolo negli occhi. Lui pensò di aver fatto colpo. Sulla Terra piaceva alle donne, almeno in gioventù. Nell’aldilà, aveva conservato un aspetto giovanile e questo ne soddisfaceva la vanità. Disse: "Il mio appartamento è in Via Alberelli. E’ poco distante da qui. Abito in una villetta a schiena di due piani, per la precisione."
La donna gli si mise al braccetto. Disse solo: "Mi chiamo Carmela, Carmela Carrese."
"Hai mai assistito ad un discorso della Commissione?"
"Non m’interessa."
"Facciamo presto. Brrr! Lo vedi il vento? Parleremo con calma a casa."
Quasi di corsa, arrivarono alla porta del palazzo che Alterio Giorgio aprì dopo aver sbrogliato il fitto mazzo di chiavi. Si erano accomodati in salotto. Le aveva chiesto: "Cosa preferisci un caffè, un tè, un cappuccino oppure cioccolata calda?"
"Una bella cioccolata calda."
Andò a prepararla. Prese la migliore miscela del Brasile ultratombale e la riscaldò sul fornello. Preparò un bel vassoio argentato con due grosse tazze di porcellana, utensili riservati ad ospiti di riguardo. Non sapeva spiegarselo, ma la giovane gli era simpatica. Era bella con lineamenti del volto delicati, sopracciglia sottili ad arco, occhi neri e faccino pulito con naso regolare e bocca carnosa. Una frangia di camicia bianca le ornava il collo sottile. Capelli neri, raccolti in un tupé dietro la nuca. Le spalle piuttosto robuste proprio delle popolane e abbastanza alta. La camicetta usciva fuori all’altezza del girocollo e sotto portava il corpetto che spingeva in fuori il tosto seno. La gonna fino ai piedi come si portava nell’Ottocento. Una ininterrotta filiera di bottoni neri partiva dal girocollo e scendeva fino all’altezza dell’ombelico. Alle maniche, aveva lunghe frange bianche a ventaglio che fuoriuscivano da sotto l’abito scuro. Teneva ancora sulle spalle la mantiglia di lana, ma aveva poggiato il cappotto in corridoio. Si misero in salotto a sorseggiare mangiucchiando biscottini. Disse lei: "In vita, non ho mai conosciuto cosa fosse la cioccolata. Oppure, cosa fosse un cappuccino. Sono cose che gusto qui. Una volta da giovane – parlo di quand’ero viva – mi offrirono del caffè che era una schifezza. Più orzo che caffè. Lo presi alla taverna di Borgo Loreto a Napoli."
"Sei di Napoli allora?"
"Così mi sembra. Ho l’accento e la parlatura di Napoli. Ho pochi ricordi della vita passata. Ramasuglie. Non so perché, ma così è. In questa seconda vita da resuscitata, so che conta solo vivere e basta, vivere senza avere paura dei giorni che verranno. Vivere e basta. Della passata vita ci sono dei vuoti che mi sforzo di colmare ricordando, ma non ci riesco. Ricordo poco... Mi hanno detto che in questa seconda vita ero destinata a fare la lavoratrice, o come dicono qui la worker. Poi quelli della Commissione hanno cambiato idea. Forse per pietà, forse vedendomi bella e molto giovane, o forse perché hanno capito che non sono mai stata cattiva. Non so…"
Alterio Giorgio avanzò una domanda impertinente. Vide che la ragazza era calma e dolce e che non si sarebbe offesa, per questo volle chiedere, per curiosità: "Sei stata l’amante di qualcuno della Commissione?"
Lei abbassò gli occhi. Prese alcuni secondi a riflettere, poi disse: "Per un certo periodo di tempo. Poi mi hanno lasciata andare. Mi hanno assegnato un sussidio ed una casa."
"E tu?"
"Anch’io."
"Cosa? anch’io?"
"Anch’io sono di Napoli. E quando sei cessata?"
"Quando sono morta? Sono vissuta sulla Terra nell’altro secolo. Nell’Ottocento. Come è bella questa cioccolata. Ne voglio ancora un po’…ed anche i biscottini. Grazie."
Alterio Giorgio andò in cucina a versare altro caffè e prese dalla scansia l’intero cartoccio di biscotti. Rientrando disse: "Ecco qui. Dopo ci facciamo pure una bella fumata. Nientedimeno che stai dall’Ottocento qui e la Commissione non ha esaminato ancora gli atti?"
"Per la precisione, morii nel 1857. Mi sono informata. Dicono che la pratica è ingarbugliata. Che ci sono molti attestati di dubbio valore, che non se la sentono di emettere una sentenza definitiva. Questo dicono."
"Perché che hai fatto?"
"Niente. Sono vissuta. Ecco qua."
"Sì, ma che hai fatto. Come sei vissuta?"
"Se ripenso alla mia vita, mi vengono i brividi. I miei morirono presto. Un mio fratello all’età di cinque anni fu mandato al Serraglio. Lì, chi sopravviveva a quindici anni era spedito su una nave mercantile come mozzo. La maggior parte di quelli rinchiusi al Serraglio moriva di fame, di tisi o di freddo. Feci la serva presso una signora di buon cuore. Per strada, mi chiamavano la guappa per via dell’altezza e delle spalle forti. Un letterato mi gridò da dietro una volta: siete una vera figlia degli Osci. Quella frase non l’ho più dimenticata. Mi sposai a diciannove anni e a venti ebbi una bambina. Mio marito era un camorrista: si ubriacava e fu accoltellato in pieno petto in una rissa. Qui non l’ho mai incontrato. Per mantenere mia figlia, andai a vendere il mio corpo nel postribolo di Donna Maria la sciancata. Mi trattava bene ed i soldi che facevo servivano a far crescere e vestire mia figlia. Poi, mi ammalai di morbo gallico e dopo un po’ morii. La mia bambina dodicenne fu mandata nel Convento delle Monache della Carità. E questo è."
"Una vita di merda. Scusa se te lo dico in faccia. Una vita che hai dovuto subire."
"Per fortuna, per volere di Dio, adesso sto meglio. E’ meglio qui. Penso che i santi cui ero devota mi hanno fatto resuscitare. Però vorrei rivedere mia figlia, ma non la trovo. Giro, giro e giro, ma non so niente di lei."
"Se vai in paradiso la vedrai, oppure saprai che fine ha fatto."
"Se non fosse per questo fatto, mi accontenterei di stare qui. All’inizio ero spaesata. Quando mi svegliai dopo morta, mi dissero che dovevo andare all’Ufficio del Registro. Mi fecero firmare – firmai con una croce, allora ero analfabeta – e mi diedero un incartamento da presentare alla Commissione. Mi feci accompagnare da una donna resuscitata lo stesso giorno in cui lo fui io, pure lei col suo incartamento. L’impiegato prese in consegna le nostre cartelle e ci fece firmare la ricevuta. Disse che dovevamo conservare la ricevuta per quando ci avrebbero chiamate. Ci fornirono anche i rispettivi indirizzi di residenza. In vita, mi ero ammalata di tisi e dopo di morbo gallico. Per questo morii giovane. Adesso, non ho alcuna malattia. Qui sono stata visitata da una commissione medica ed hanno detto che sono una sana e giovane. Un miracolo. Mi hanno consigliato di fumare poco e di non bere forti alcolici. Questo per vivere meglio, senza acciacchi.
All’inizio, mi avevano destinata ai lavori manuali nelle colonie. Dovevo fare la worker. Poi, come ti ho detto cambiarono idea. Feci dei corsi per analfabeti. Frequentai per cinque anni quei corsi ed appresi a scrivere, a leggere e a fare i conti. Ero una delle più diligenti. Mi dicevano che se nella antecedente vita avessi studiato, sarei riuscita proprio bene. Potevo fare la dottoressa, la scrittrice, l’avvocatessa. Ma ai miei tempi, le donne non facevano questi mestieri. Qui, in questo mondo, dietro casa c’è un orto che coltivo e innaffio. In piena estate, ci fioriscono belle rose e crescono ortaggi come insalata, peperoni, pomodoro, piselli. Ci tengo pure alberi da frutta come fichi, prugne, albicocche e noci. Sono piante adatte a questo clima. Mi ricordo del cielo sereno di Napoli in aprile, quel cielo verso Posillipo…"
"Me lo devi far vedere. Voglio vedere come coltivi il tuo orticello."
"T’inviterò a mangiare un po’ di minestra di zucchine. Ti piacciono?"
"Molto. Ma adesso non è il tempo. Bisogna aspettare a giugno."
"Chissà se ci arriverò a giugno."
"Perché?"
"Come perché. I miei centocinquanta e passa anni stanno per finire e forse sono già trascorsi. Scomparirò all’improvviso senza neanche sapere dove sarò indirizzata, se in purgatorio o in paradiso. All’inferno non penso di essere diretta. Già passai l’inferno in vita. "
"Sei a rischio, ma non fartene un problema. Ho saputo di alcuni: trascorsi i centocinquanta anni sono caduti in forte depressione, temendo di scomparire da un momento all’altro. Mi hanno detto che possono passare anche dieci anni dalla scadenza dei termini, prima di scomparire del tutto."
"Nella lunga permanenza qui, vidi una che scomparve davanti a tutti in strada. All’improvviso, quella donna si mise a gridare aiuto. Diceva: aiuto, sento che sto scomparendo. Cercava aiuto anche se sapeva che non c’era più niente da fare. E’ come quando uno affoga e chiede aiuto. Capisci? E’ una cosa naturale. Uno sta morendo e chiede aiuto. Se stai morendo, lo sai che nessuno può darti una mano, ma lo stesso invochi la gente intorno a te. Come un bambino che piange, sapendo che la madre è morta. Il bambino chiama la madre stesa sul letto di morte e piange... e che piange a fare?
Quella donna che poi sparì cominciò a piangere e alla fine svenne. Mi ricordo la faccia della donna, bianca come una morta. La gente si era fermata allibita, ma nessuno intervenne, tanto... era inutile. La donna diventò prima come una figura piatta, una specie di ritratto a colori, afflosciato per terra. Divenne poi sempre più trasparente e scomparve dall’asfalto dove giaceva."
"Terribile."
"Sembrava che se la fosse succhiata l’asfalto, come una pozza d’acqua che si asciuga al sole."
"Assurdo. Però è meno doloroso delle sofferenze di quando uno muore sulla Terra."
"Molti ci provano gusto a vivere. Più si allunga la vita e più ci trovano gusto a vivere. Hanno terrore di finire per sempre."
"Vuoi visitare il mio laboratorio? Vieni. Faccio delle ricerche sulla gente che scompare da questo mondo. Ho delle foto e dei filmati."
La ragazza fece cenno di sì, senza molta convinzione. Aveva sollevato le spalle e fatto cenno di sì. Cominciava a guardare le cose senza un grande interesse, con distacco. Si stava rassegnando a dover scomparire da un momento all’altro. Scesero per una lunga scalinata buia, illuminata da una lampada al neon, fissa ad una parete. Molto in alto la cupa volta a botte, intonacata a calce. Sorreggendosi ad una ringhiera di ferro incastrata nel muro perimetrale, lei disse: "Sembra il nascondiglio di un forte. Anzi, un passaggio segreto come quello dei Borboni a Napoli. Ai miei tempi, la gente di Napoli diceva che i Borboni avessero sotto il Maschio Angioino una serie di passaggi segreti... mi manca un po’ l’aria qui."
"L’ambiente è poco aerato, ma ci sono finestrelle collegate all’aperto da lunghi e stretti cunicoli."
Arrivarono davanti ad una porticina che Alterio Giorgio aprì, premendoci la mano. Accese altre luci al neon. C’era una bianca fornacella smaltata con bacinelle, cilindri graduati di vetro, beker, becco Bunsen, pipette e un grosso proiettore, in fondo. Alterio Giorgio fece accomodare Carmela su una sedia ed andò ad accendere il proiettore. Nel frattempo, disse che avrebbe aggiustato la pellicola: "Stando a quanto si dice, si finirebbe in uno dei tre regni: paradiso, purgatorio o inferno."
"Così dicono quelli della Commissione, ma alcuni dicono che si scompare per sempre e basta."
"E tu non hai paura di scomparire per sempre?"
"Sono vissuta pregando i santi. Sulla Terra, ero devota alla Madonna. Quando sto sola, continuo a pregare. Penso che non scomparirò del tutto. Alcuni hanno terrore di sparire."
Alterio Giorgio cominciò a proiettare. Disse: "Ho solo tre immagini di persone in via di sparizione completa e definitiva. Ecco la prima. E’ una donna francese. Siamo in una grossa città del Settentrione. Ecco vedi? Sta con altre persone in un bar. Parla di varie cose. A questo punto, diventa seria e poi il viso s’intristisce. Avverte come un malanno passeggero. E’ come si sentisse mancare. Poi, grida. Grida aiuto! I vicini la soccorrono, le portano una sedia e dell’acqua. Lei grida che non serve, che sta scomparendo. Adesso vedi? Diventa diafana. La sua immagine è ondulante, non parla più, anche se si agita e poi diventa talmente diafana che scompare del tutto. Anche qui vedi? Lo stesso fenomeno. Questa volta è un uomo. E’ a casa con degli ospiti. E’ una festicciola tra amici. Sta preparando qualcosa al piano bar da offrire agl’invitati. Ecco, è prima serio, chiuso in sé anche se continua a riempire dei bicchieri. Poi si tocca in petto e lascia cadere sul vassoio la bottiglia. Chiede aiuto. Grida e si sbottona la camicia al collo. Sembra infarto. E poi le solite cose: i soccorsi inutili, l’uomo che diventa trasparente e poi scompare. Questo è il terzo ed ultimo caso. Una giovane donna che sta in un negozio di moda. Ecco, diventa seria, si tocca al petto e grida che sta sparendo. E poi scompare. Gli altri attorno tutti allibiti."
"Strano. Mi sembra di averla già vista."
"Non è strano. In centocinquant’anni, ci si incontra con tanti. Si fa amicizia e poi ci si dimentica. Sono tanti centocinquant’anni, anche se non lo sembrano."
"Ma è come se quella donna l’avessi sognata. Come se l’avessi vista in un sogno."
"Qui nessuno sogna, non lo sai?"
"Certo che lo so, ma l’ho vista e non in un contesto normale. E’ come se l’avessi sognata anche se qui nessuno sogna, ma ho questa impressione. Forse la incontrai a Napoli quando ero in vita di là, sulla Terra."
"Impressioni. Se ne hanno tante. Sensazioni dal passato remoto provenienti. Nostalgia di eventi che non ritorneranno più."
"Anche se la mia vita fu una schifezza, ma una vera schifezza, a volte la rimpiango, se non tutta, almeno in parte. Dopotutto, fui madre. Mia figlia era molto bella. La dovetti lasciare in un convento di suore. Almeno lì trovava da mangiare. Le lasciai un poco di dote come beneficenza per il convento. Spero che l’abbiano trattata bene. Però dico: se siamo nell’aldilà, dovrei sapere dov’è finita mia figlia. A volte prego per me, per lei e per quando sparirò di nuovo. Dicono che qui le preghiere non servono più, ma io lo stesso prego."
"Mi sono fatto una idea precisa di cosa ci accade quando scompariamo. Come illustri scienziati dicono, esistono due forme fisiche. Una è la superficie delle cose e dei corpi, quella da cui si ricavano le immagini che vediamo. Ci sarebbe poi una realtà nascosta che forma la massa di ogni corpo. Di questa realtà nascosta non è ancora stata dimostrata l’esistenza. Si parla del bosone di Higgs, ma illustri scienziati, sia della Terra da cui deriviamo, sia di qui, nonostante continui sforzi, non l’hanno ancora trovato. Qualcuno dice che la massa dei corpi, se esiste è collocata in una diversa dimensione dello spazio e del tempo. Allora la massa dei nostri corpi dopo centocinquanta, centosessanta anni inesorabilmente scompare come risucchiata da un buco nero. Forse questo buco nero è Dio. Capisci?"
"Niente. Niente proprio. Le tue disquisizioni le devi fare ad altri. Io sono solo una poveretta che sulla Terra era analfabeta e qui capisco qualcosa, so scrivere e leggere, ma oltre non vado."
La ragazza si stava annoiando. Non voleva vedere come la gente scompariva. A volte era rassegnata alla sorte, ma a volte aveva terrore di scomparire. Questo Alterio Giorgio lo capiva?
Lui disse: "Allora andiamo di sopra."
Alterio Giorgio rimise a posto proiettore e pellicole. Salirono su. Il cielo sempre più cupo con fiocchi di neve mulinanti, fitti per gelida strada. Nei turbini di neve, i lumi flebili dei lampioni. Nella sera incipiente, denso silenzio. Si erano seduti sul divano, attorno al focolare. La vampa brillava negli occhi chiari della donna. Nel camino, la rossa vampa emetteva brevi lingue ardenti. Carmela disse: "Ma parlami di te."
"Sono venuto qui da poco, essendo morto nel 2009. Ho passato anch’io una vita di merda. Divorziato e risposato. Dicono qui che i divorziati non vanno in paradiso, tutto al più in purgatorio. Io dico: se sulla Terra c’è il divorzio perché qui è una colpa? Ma non ci pensiamo. Da vivo facevo il medico. Ero medico e docente universitario."
"Qui mi sembra tutto più semplice. Non si fanno mai figli. Ci si lascia e ci si mette insieme senza tanti problemi. La Commissione non controlla queste cose. Invece, ai miei tempi se una donna sposata si metteva con un altro, era normale che il marito la uccidesse. Anche una vedova che si risposava era vista male. Brutti tempi. E’ meglio che non ci pensi."
Alterio Giorgio si era alzato ed osservava dalla finestra. Disse: "Il tempo peggiora. Sembra di stare in una cittadina del nord Europa. C’è vento forte in strada. Puoi restare qui stanotte."
Fissandolo negli occhi, Carmela fece cenno di sì. Diffidente lo era sempre stata. Era cresciuta per strada, nei vicoli di Napoli ed anche nella nuova esistenza aveva conservato la paura di concedersi con fiducia al mondo. Troppo volte il mondo l’aveva tradita, mortificata ed addolorata. Aveva spesso pregato la madonna del Carmine che la proteggesse. Era una misera bambina con dei cenci addosso e senza cibo, sbattuta per strada a chiedere elemosina. Ecco come aveva passato i primi anni di vita fino ai dieci, dodici anni a Napoli. Poi, molto giovane si era sposata ad un camorrista. Vedova, si era trovata di nuovo per strada con una figlioletta da sfamare. Adesso che era stata resuscitata anima e corpo, portava con sé l’anima dolente dalla quale non poteva separarsi.
In fondo al salotto, Alterio Giorgio aveva aggiunto legna nel camino. Un dolce tepore si era diffuso per lo stabile. La fiamma ardeva e rossi bagliori si stampavano sulle pareti. C’era solo il grosso candelabro a cinque bracci, acceso sul tondo tavolo. Si erano stretti su un unico divano, poi lei si era voluta spogliare e lui aveva osservato quelle nudità perfette. Il volto era fine e bello, ma lasciava trasparire una vaga tristezza. Il corpo era slanciato e snello. Seno pingue e pelle bruna. Le labbra carnose invitavano al sesso, mostrando a volte, un ambiguo, breve sorriso. Aveva sciolto i lunghi capelli corvini. Adesso, era proprio un’amazzone selvaggia e quegli occhi chiari, che a volte avevano un colore incerto, tra il grigio, l’azzurro ed il verde ne accentuavano l’espressione ribelle. Lui disse: "Ai miei tempi potevi fare l’attrice. Saresti riuscita bene. Hai un viso bello ed espressivo, occhi azzurri e capelli nero corvini. Somigli ad una famosa attrice italiana... adesso non ricordo il nome."
"Sono un po’ strabica non lo hai notato?"
"E’ un vezzo. Ti dà un’aria sognante. Un vezzo, in aggiunta alla tua bellezza."
"Invece mi morivo di fame. Ero malvista dalle altre del vicinato, anche per la mia bellezza. Ogni cosa di me dava fastidio. Ero una disgraziata e basta."
"Avresti dovuto ribellarti. Fare qualcosa, fuggire."
"Ma se non avevo neanche un grano per nutrirmi. Da piccola quando era ancora viva mia madre, andavo in giro con gruppi di pezzenti, ragazze e ragazzi, con luridi cenci addosso; sostavamo davanti alle bettole nella speranza che qualcuno ci gettasse un tozzo di pane. Quella doveva essere la mia vita."
"Vedrai che in paradiso ti rifarai, Carmela."
"Più o meno quello che dicono tutti."
"Carmela, ti ricordi quando moristi e trapassasti qui?"
Carmela sospirò e cercò di ricordare gli eventi dolorosi della passata vita: "La mia agonia fu lunga. Mi trasportarono con la febbre al sanatorio di Via Foria. Chi andava lì di solito era perché doveva morire. Ricordo che stavo su una branda con un lenzuolo bianco sopra. Una suora di tanto in tanto m’invitava a bere acqua e mi metteva delle pezze bagnate sulla fronte. Poi ricordo che non ce la facevo più a respirare. Sentivo solo i miei rantoli e poi più nulla. Poi non so dopo quanto tempo, fu come se mi svegliassi e vidi che volavo come in un condotto, una specie di cunicolo e in fondo c’era una luce molto forte. Percorrendo quella specie di grotta luminosa, una lunga caverna, mi accorgevo che da spirito trasparente e leggero divenivo pesante e mi vedevo con il corpo di ventenne. Alla fine del condotto non volavo più, ma camminavo. Mi tastai incredula e vidi che ero viva e con il mio corpo. Ricordo che esclamai: Gesù, e che sono resuscitata anima e corpo?"
"E che accadde dopo?"
"Una voce strana, una voce come se ne ascoltano adesso al megafono diceva: prima di uscire all’aperto, vestirsi. La voce ripeteva più volte la frase: prima di uscire all’aperto, vestirsi. Feci attenzione e mi guardai attorno. Non potevo uscire fuori, all’aperto così, nuda. Avevo vergogna. Vidi che per terra c’erano degl’indumenti. Li raccolsi. Erano gli stessi che avevo avuto quando morii e di quando il mio cadavere fu posto in bara..."
"Poi che ti accadde, una volta che ti trovasti vestita ed in carne ed ossa?"
"Fuoriuscita dalla grotta, dovetti abituarmi per un momento alla luce del giorno. Tenni una mano davanti agli occhi per ripararmi dal sole. Udii uno che mi chiamava. Diceva: tu donna, dico a te. Era su un baldacchino di lato all’uscita della grotta ed io a poca distanza, ma stralunata. Mi giravo attorno e volevo cominciare le recite dell’avemaria. Quello che mi chiamava si alzò dal baldacchino e mi venne di fronte. Disse proprio a me: Come vi chiamate? Io dissi: Mi chiamo Carmela, Carmela Carrese. A lato di quello che m’interrogava, c’era uno seduto davanti ad una specie di televisione. Allora non sapevo cosa fosse un televisore. Vidi una parete illuminata con numerose scritture. Quando seppi dei televisori, pensai che quello era davvero un televisore. Pensai subito che non stavo più sulla Terra. Dissi: "Madonna del Carmine, ma dove sto?"
"Non è un televisore quello, ma ci somiglia. E’ un computer. E poi cosa accadde?"
"Sentii o vidi che stampavano dei fogli. Veramente, ho saputo dopo come si stampano i fogli. In vita, non avevo mai visto certe cose. Ricordo che ai miei tempi c’era una specie di stamperia nei pressi del palazzo reale, verso i Quartieri Spagnoli, ma era come una casa grande… "
"Continua."
"Chiusero questi fogli in una cartella e me la diedero. Dissero che dovevo presentarmi il giorno dopo davanti alla Commissione. Una donna mi accompagnò nel mio nuovo domicilio, la casa che abito adesso. Lei mi spiegò come si stampano i fogli. La stessa donna il mattino dopo mi accompagnò davanti alla Commissione dove consegnai il mio plico. Anche lì c’erano molti televisori. Mi diedero una ricevuta dicendomi di conservarla. Dissero che dovevo aspettare che mi chiamassero. Poi da questa donna seppi che avrei ricevuto per posta dei soldi ad ogni fine mese. Per i primi tempi, questa donna fu la mia assidua accompagnatrice. Fu lei a farmi frequentare un corso quinquennale di studi. Quando arrivai qui ero analfabeta."
"Ho capito. Tu quindi sei certa di essere nel Limbo, come fanno credere a tutti."
"Non lo so. Tu che dici? Quando ero viva mi dicevano che solo l’anima sopravviveva al corpo. Invece qui siamo di nuovo vivi, anima e corpo però non stiamo più sulla Terra, non stiamo più a Napoli. Io non so. Forse è avvenuta la resurrezione dei corpi, come i Vangeli dicono."
"Tu non hai mai sentito parlare di Omero?"
"Chi e?"
"Uno che parlò di morti e di vivi. Disse che il dio Ermes…"
"Non ho mai sentito parlare di un santo Ermes…"
"Era un dio di altri popoli. Ermes chiama le anime dei Pretendenti, uccisi da Ulisse e le guida nell’Ade…"
"Ade cosa è?"
"Il regno dei morti. Ma ascolta: anche Omero parla di una lunga caverna."
"Parla piano. A volte non capisco niente. Omero... Ermes…"
"Dicevo... Ermes con la verga di oro guida i Pretendenti uccisi, attraversando sentieri pieni di muffa. Le anime seguono il dio emettendo stridii e svolazzando come pipistrelli in cupa caverna. Superano le correnti di Oceano e la Rupe di Leucade, le porte del Sole e il paese dei Sogni, giungendo al prato degli asfodeli dove le anime, immagini dei vivi, dimorano. E’ molto antico il concetto che dopo la morte si debba attraversare una lunga caverna."
Carmela scoppiò a ridere. Alterio Giorgio meravigliato chiese perché ridesse. Carmela spiegò arrossendo: "Questo Ermes era un fetente..."
"Perché?"
"Guidava i Pretendenti con la verga di oro. Cioè col cazzo d’oro."
"Ma no. La verga era lo scettro come i re borbonici ai tuoi tempi."
Carmela sembrò capire. Poi disse: "Quando sono venuta qui, te l’ho detto, ho dovuto imparare l’italiano. Se non lo avessi fatto non avrei capito niente di quello che hai detto."
"E che hai capito?"
"Che dopo la morte tutti devono passare per una lunga caverna fino a che non si vede una traccia di luce."
"Sì, ma non siamo anime. Abbiamo un corpo, come il tuo, molto bello, perfetto, una Venere."
"Se si potesse ripercorrere quella caverna e tornare almeno per po’ sulla Terra."
"In quello schifo. Perché? perché vorresti tornarci?"
"Almeno per un po’. Rivedere i posti dove vissi la dannata esistenza. Stare di nuovo in quei vicoli puzzolenti e scuri... quello era il mio mondo dopotutto, quello era il vero cuore di Napoli. Poi te l’ho detto, vorrei cercare di trovare almeno una flebile traccia di mia figlia, morta e stramorta. Una traccia che mi aiuti a trovarla qui. Qui non l’ho rivista, sebbene l’abbia cercata. Se non è qui allora dov’è finita? Sapevo che almeno nell’aldilà ci saremmo tutti rivisti."
"Ma questo non è un aldilà. Non è un vero aldilà."
"Perché siamo resuscitati?"
Non seppe che dire alla sua domanda. Aspettò un po’. La fissò negli occhi. Vide che aveva le labbra socchiuse. Le disse in tono serio: "Ti amo."
Si svegliarono che era mattino molto inoltrato. Dopo doccia e rasatura, Alterio Giorgio andò a preparare la colazione. Lei nel frattempo era andata in bagno. Si era messa davanti al lavabo. Aveva scrutato la faccia nello specchio, girato il rubinetto. Si era lavata la faccia con acqua fredda ed era entrata nuda in doccia; ne era uscita in accappatoio pulita e profumata. La giornata fu bella, una parentesi nell’inverno grigio. Tra sprazzi di nuvole, un bel sole illuminava la strada fiancheggiata da cumuli di neve e grandi alberi spogli. Dalla finestra, si vedevano delle persone che passavano sui marciapiedi. La visione dalla finestra in parte occupata dal grosso tronco scuro di un albero centenario, lungo il marciapiede di rimpetto. Si erano seduti uno di fronte all’altro, intorno al tavolo. C’era cenere abbondante nel camino e il fuoco del tutto spento. Lui disse: "Se vuoi, passeggiamo un po’ e poi andiamo al ristorante LA NEBBIA qui all’angolo. C’è una festa. Il padrone dà l’addio al celibato. Domani celebrerà il matrimonio civile con giuramento davanti ad uno della Commissione. La sposa è una mia amica. Sono stato invitato al pranzo di addio al celibato. Il pranzo è per oggi alle 15.00."
"Allora mi devo vestire bene. Devo andare prima a casa mia."
"Nell’ammezzato, ci sono due armadi a muro pieni fino all’inverosimile di abiti femminili. Erano di una precedente inquilina, sparita da poco. Per la precisione, è sparita nel febbraio 2009. Quando sono apparso a maggio, la Commissione ha assegnato a me la casa vuota. Sto rimodernando l’appartamento, ma non ho svuotato tutti gli armadi. Ci vuole tempo."
"In un secolo e mezzo potresti farcela…"
Carmela era salita su a controllare. Alterio Giorgio aveva gridato da sotto: "Nel primo armadio, quello in fondo, ci sono solo abiti invernali."
"Spero di trovarne uno che mi piaccia e mi vada bene."
"Deve esaltare la tua bellezza non deprimerla come l’abito che avevi addosso che risalirebbe all’Ottocento, come minimo."
Carmela ci mise un po’ a trovare l’abito giusto. Alla fine, annunciò trionfante: "Ho trovato quello che fa per me."
"Bene, che aspetti allora?"
Dopo molte indecisioni, la ragazza aveva indossato un cappotto di lana scuro principe di Galles – prezzo ultratombale di 3000 Euro – una gonna a tubo da sopra i ginocchi, calze in maglia, Prada ultratombale e stivaletti aderenti con tacco basso che raggiungevano i ginocchi, Gucci ultratombale. Scendendo dalle scale, Alterio Giorgio fu di stucco:
"Sembri un’altra. Anche se sono passati centocinquanta anni, alla fine hai capito come vestire."
"Devo truccarmi prima."
Prelevato l’occorrente dalla borsetta: la crema rinfrescante, la rivitalizzante, la tonificante e lo spray. Era entrata in toilette. Alterio Giorgio a gridare esaltato: "Sei una dea. La dea dell’amore."
"Aspetta, fammi prima truccare."
Da sotto lo stipite tra salone e stanza da pranzo, Carmela aveva chiesto: "Allora come sto?"
"Perfetta. Uno schianto. Sulla Terra, così dicevamo alle donne noi uomini del ventesimo secolo."
"Un secolo prima del tuo invece una come me l’avrebbero chiamata sai come?"
"Una regina."
"No. Puttana."
"Per un secolo e mezzo, sei andata vestita sempre con quella orribile gonna?"
"Tranne rare eccezioni. Da bambina, portavo lunghi cenci appartenuti ad una mia sorellina morta di tisi a dieci anni. Mio padre era morto che ero molto piccola, lasciando la famiglia nella disperazione."
"Hai gambe perfette. Incredibile. Sei perfetta. Il viso… il corpo… lo sguardo luminoso… se fossi stata fortunata ai tuoi tempi potevi diventare come minimo la cortigiana del re. Che dico… la sua preferita."
"Andiamo, non voglio starmene qui chiusa. Non voglio ricordare parti della mia dannata vita."
Per strada, osservavano il fiume che tagliava in due la città e che da quelle parti faceva un’ansa prima di aprirsi ad estuario in mare. Spezzoni di ghiaccio trascinati dalla corrente luccicavano come specchi nel forte sole, a capolino tra gigantesche nubi. Il ristorante era oltre il ponte in una via laterale, prima della Grande Piazza. Disse Carmela: "Quando facevo la serva ad una ricca signora, dalla piazza antistante... questa piazza, mi ricordo che si chiamava Piazza Loreto, veniva un profumo di pane. Di rimpetto, c’era una grossa panetteria coi garzoni che si alzavano presto la mattina ad impastare il pane. Che strani ricordi, sembra ieri. Sembra che sia avvenuto tutto qui, in questa nuova vita, anche se è passato molto tempo da allora."
"Invece ero bambino e in paese, prima che la mia famiglia si trasferisse in città, mia nonna e mia madre facevano il pane in soffitta dove c’era il forno a legna."
"Il pane cafone, lo chiamavano in città. Lo facevano ai miei tempi a San Giovanni a Teduccio, un paese vicino Napoli che ora, mi hanno riferito, è come una città."
Alterio Giorgio volle ricordare come se non aspettasse altro. La vita passata era piena di ricordi. Disse: "Adesso, quella soffitta nella vecchia casa abbandonata ha perso anche l’odore dolciastro del pane sfornato. Chissà chi ci abita in quella casa; forse mio figlio di tanto in tanto ci va. Forse la vecchia casa è stata venduta. Tutto passa."
"A me viene la malinconia quando ricordo il vicolo dove vissi."
"In quella soffitta, tutto sapeva di pane appena sfornato. Mia madre morì a ottantadue anni e mia nonna deceduta a metà degli anni Settanta. Qui non le ho mai viste. Me le ricordo che impastavano il pane. Dovevano cominciare la sera prima. Al crepuscolo, quando la gente tornava dai campi, mia nonna si faceva dare il lievito che in dialetto si chiamava la criscia o luvatu. Una famiglia del vicinato prestava il luvatu. Si passavano lu luvatu da famiglia a famiglia."
"Era così anche nei vicoli di Napoli ai miei tempi."
"Prima d’infornare le panelle, mia madre con un taglio netto prelevava un pezzo di pasta che era la criscia da cedere ad una famiglia del vicinato che avrebbe dovuto fare a sua volta il pane. C’era questa usanza. Adesso – nel mondo che ho lasciato - non si fa più il pane e per tivù hanno detto che a causa della diffusa obesità al posto del pane si preferisce fare colazione con uno yogurt (magro). Allora che si zappava la terra; il pane era il cibo principale: pane e olio, pane e carne, pane e cacio, pane e fichi... Adesso in una società di obesi, sembra che il pane faccia male. Occorre abolire il pane ed i grassi. La stessa cosa penso sia successa qui, in questo Limbo."
"Qui, mi sembra che nessuno faccia niente. Vedo solo gente che prende i soldi mensili dalla Commissione senza dare nulla in cambio."
"Invece, anche qui ci sono quelli che lavorano, ma non si vedono. Li chiamano workers."
"Dovevo fare anche io la lavoratrice. Poi, come ti ho detto hanno cambiato idea."
"Alcuni hanno scoperto dove si trovano i workers. La gente non è disposta a credere a tutto quello che la Commissione dice. Forse, ci credeva la gente come te che arrivava qui, essendo morta nell’Ottocento e nel primo Novecento. Con l’arrivo qui di grandi scienziati, teologi e filosofi, le cose sono cambiate. C’è molto scetticismo nei confronti della Commissione e si sono capite molte verità che prima s’ignoravano. Prima, credevano per filo e per segno a quello che diceva la Commissione. La gente era smarrita e finiva col credere a qualsiasi cosa. Adesso abbiamo le prove che la realtà è molto diversa. Qui le cose funzionano come sulla Terra."
"Alcuni diffondono discorsi sovversivi. Tutto sommato io sto bene così. Solo che adesso ho di nuovo paura. Ho consumato quasi per intero la mia esistenza qui. Ho oltrepassato di molto i centocinquant’anni. Posso scomparire da un momento all’altro. E’ di notte che ho più paura. La notte quando sto sola. A volte, mi alzo e osservo la strada gelata da dietro la finestra. Il vento che geme e la luna piena nel cielo senza una nuvola. A volte, l’albero centenario che ostruisce in parte la visione, avvolge con le sue scheletriche dita la faccia bianca della luna piena. Ammira le scure trame dei rami che sembrano catturare l’andare della luna in cielo. Così mi faccio compagnia. A volte recito il rosario anche se non serve più. Dire il rosario è bene. Pregare fa bene, non fa male."
"Penso che non bisogna temere. Se uno è stato resuscitato, continua ad esserlo in un altro mondo."
Si erano seduti su una panchina. Lei aveva chiesto: "Continua a parlarmi di quando tua madre e tua nonna facevano il pane. Sono cose che vedevo anche ai miei tempi. Mi piace ricordare cose passate sulla Terra. A volte m’immalinconisco, ma è bello. Quando sparisco da qui, vorrei trovarmi di nuovo viva sulla Terra e vedere come le cose sono cambiate."
"Il cambiamento c’è stato. C’è stata la tecnica che ha rivoluzionato le cose. Ci sono state le guerre mondiali e tante altre cose brutte e belle."
"Parlami di quando tua nonna faceva il pane in soffitta. Il pane cotto al forno con la legna."
Alterio Giorgio continuò coi ricordi: "Mia madre e mia nonna la sera prima dovevano ripulire la madia col rastrello, lavarla con acqua calda, asciugarla bene e metterci uno strato sottile di farina in modo che la pasta non aderisse al fondo. Una delle due prelevava farina dal sacco con le mani unite a coppa e l’ammucchiava nella madia, facendoci un cavo al centro come la bocca di un minuscolo vulcano. In quel cavo ci si versava acqua calda, a poco a poco. Si mettevano ad impastare a mani nude. Ottenuto un amalgama omogeneo, continuavano a tirare la pasta, ad ammassarla ed a premerci i pugni. Ogni tanto, si ungevano le mani con olio di oliva che faceva da lubrificante, in modo che la pasta non aderisse alla pelle. La minima quantità di olio che finiva mescolato alla pasta rendeva il pane più soffice e saporito. Si aggiungeva anche il sale grosso e alla fine si tagliavano le tonde panelle sulla cui superficie incidevano una croce col coltello. Assistevo alla trasformazione che aveva del magico durante tutte quelle fasi di lavorazione: la pasta derivata dalla farina con aggiunta di acqua e sale; la lievitazione del pane sotto i manti di lana; l’infornata sulla brace ardente ed infine il pane cotto, pronto per essere affettato. Così, dalla farina che derivava dal grano macinato al mulino si facevano le saporite panelle che sfamavano intere famiglie. Dalla farina al pane. Mia madre diceva che era opera dei santi del paradiso."
Carmela si consolava ascoltando. Erano ricordi anche suoi. Lei ricordava che la mattina presto dal balcone dello stabile dove faceva sia la puttana e sia la serva, vedeva il locandiere e la moglie del negozio a fronte infornare il pane. Si spandeva per tutta Piazza Loreto l’odore del pane, appena cotto. La moglie del panettiere si metteva a gridare verso i vicoli: "Il pane è fatto. Venite, venite. Scetateve."
Disse: "Continua, mi aiuta a ricordare."
Alterio Giorgio continuò: "Le panelle poste su un tavolo di noce e ricoperte con un panno di lana lievitavano fino all’alba. Mia madre e mia nonna si alzavano alle quattro per accendere il forno ed infornare il pane. Oltre al pane facevano anche due pizze, una con aglio e origano ed una coi pomodori rossi. C’era poi la focaccia a forma di un grosso tarallo col buco al centro, le ciabatte e le trecce. Mi piaceva la ciabatta con l’olio fresco dentro. Le pizze erano infornate per ultimo, quando le panelle ben cotte erano state sfornate e riposte sul tavolo a raffreddare."
Alterio Giorgio sospirò. Dolci e malinconici ricordi in un mondo remoto nello spazio e nel tempo. Disse: "Era sempre un giorno lieto quando si faceva il pane."
Carmela disse: "Mi è venuta fame. I tuoi ricordi mi hanno fatto venire fame."
"Tra poco andremo nel locale dove tiene la festa il mio amico. Non dista molto."
Avevano raggiunto Piazza Grande. Nel grigiore della pioggia fine, la piazza si aprì davanti a loro poderosa, enorme. La nebbia s’era infittita e le strade che partivano a raggiera da Piazza Grande non si distinguevano più. Era rimasta solo la piazza con le fosche e disseminate lune dei lampioni non ancora accesi. S’intravedeva la parte del palco che inspiegabilmente ancora non era stata smontata con la gigantesca croce di legno, scura e troneggiante nei fumi di nebbia che si spostavano lungo le strade. Le bianche facciate ed i larghi cornicioni del Palazzo della Commissione Centrale si perdevano immensi nella nebbia, come a sostenere il cielo triste, pieno di nubi pesanti e frettolose. Attraversarono diagonalmente la piazza. Alterio Giorgio non aveva fretta. Adesso la pioggerellina era cessata. Accanto a sé udiva i passi molli e incerti della donna, che lo affiancava in silenzio, a capo chino, le mani affondate nelle tasche del cappotto, altera, ma estranea fiammella di vita; e d’un tratto, nella silenziosa solitudine della piazza, quella donna di cui sapeva poche cose, che gli era estranea così com’egli si sentiva estraneo a se stesso, gli parve, proprio per questo, stranamente vicina, più vicina di quanto possano rendere le parole e la consuetudine levigatrice del tempo.
Alterio Giorgio disse: "Mi piace ricordare di quando mia madre e mia nonna facevano il pane. Quelli furono forse gli anni più felici e spensierati della vita. L’odore del pane appena sfornato, il sapore della pizza al pomodoro e com’erano buone quelle ciambelle fumanti, tagliate a metà, con l’olio fresco spalmato dentro."
"Ai miei tempi si moriva di fame e di freddo, però nelle taverne si faceva il pane come dici tu."
"Però provi nostalgia nel ricordare quel periodo infame."
"Più che nostalgia ho rabbia. Fui una disgraziata, vissuta in tempi bui. Chiamiamoli bui per non dire altro. Alcune madri ai miei tempi per disperazione avvelenavano i figli."
"E’ vero quello che dici. Però rimpiangi alcuni momenti di quella vita. E’ inevitabile. Siamo fatti di tristezza e di nostalgia. In fondo ai nostri pensieri, c’è una zona irraggiungibile... irraggiungibile come la felicità. La ricerca della felicità, l’aspirazione alla gioia perfetta, cose inesistenti. Illusioni."
"Era quella la vera vita."
"In un certo modo, anche questa è vita."
"Con te mi trovo bene. A me questo basta."
Il ristorante – pizzeria non era molto affollato. C’era una dozzina di persone tra uomini e donne tutti ben vestiti. La futura moglie stava su un canapè e parlava con le amiche. Era molto bella con sorriso smagliante, adatto all’evento. Aveva capelli biondi. Dalle cosce accavallate si capiva che era slanciata. Forse più alta del futuro marito. Non c’erano futuri generi e nuore, probabilmente non risorti oppure erano riemersi, ma chissà su quale pianeta del nuovo universo. Gli sposi però avevano dei limiti. Legalmente il matrimonio ultratombale aveva dei limiti. Era ammesso solo il rito civile e i coniugi non potevano avere prole. Quelli che si accoppiavano, non avevano mai figli. La Commissione diceva che era un divieto proveniente dall’Alto. Una disposizione divina.
Nell’attesa, Alterio Giorgio e Carmela Carrese si erano guardati attorno. Un architetto di chiara fama discuteva animatamente col collega trapassato. Altri a cerchio li ascoltavano. L’architetto di chiara fama, il dott. Molino disse:
"…des j oies intenses de la géometétrie…"
Il collega rispose di botto: "E’ vero. L’architettura di questo nuovo mondo deve lottare per il superamento della forza di gravità. La nuova architettura si deve distaccare da quella terrestre. La nuova architettura deve essere fisico – dinamica."
Un amico aveva salutato da lontano Alterio Giorgio, aveva lasciato gli amici del proprio tavolo e gli si era avvicinato. I due si erano dati la mano: "Renato, come stai? Ti presento la mia amica Carmela."
"Piacere Renato. Sto lì con degli amici. Stiamo preparando, sai? una dimostrazione contro la Commissione. Venite al nostro tavolo. Parliamo un po’."
Carmela aveva acconsentito. Lui voleva stare solo con lei, ma decise che era meglio parlare con gli altri. In tutto, una ventina di persone intorno al lungo tavolo. Il posto di capotavola era per lo sposo con a lato la futura moglie. Per adesso, lo sposo stava in cucina a dare disposizione per le pietanze e la sposa con le amiche nella grande veranda, collegata alla sala di ricevimento. Alcune avevano ampie gonne a quadroni di lana, strette ai fianchi e maglione alla dolce vita, secondo la moda ultratombale. Avevano piccole spade d’argento ficcate nelle trecce e collane di rosso corallo. Gli uomini erano per lo più in doppiopetto con laccioli d’oro penzolanti dal corpetto, ben rasati con ciuffi di capelli lucidi sulla fronte. Lo sposo era in frac di lana cotta bianca, Grand da 1000 Euro ultratombal e camicia bianca marca Severity con cravatta di seta Regimental, Paul Zileri, 200 Euro ultratombal e cintura di pelle scamosciata Churc’s da 160 Euro ultratombal. I pantaloni intonati con tutto il resto erano marziali, di lana, 1200 Euro ultratombal di Yohji Yamamoto. Uscito lo sposo dalla cucina, erano cominciati suoni e canti. In fondo alla sala, l’orchestra era di strumenti a fiato e di chitarre elettriche. Attaccò il solista con una lunga nenia, accompagnato da violino e flauto. Poi ci furono canti corali più allegri. Cominciarono a distribuire bicchieri di spumante e tutti brindarono in onore degli sposi, proprio come una cerimonia terrena. Lungo le pareti su delle mensole, erano state sistemate alla meglio bottiglie di champagne, pronte all’uso. Tutti presero posto intorno al tavolato. Ecco entrare gli antipasti alla paesana e subito dopo dieci mostruosi calzoni, ognuno lungo un metro. I calzoni cotti al forno erano ripieni di ricotta, funghi porcini e salumi stagionati. Nei bicchieri il vino rosso della casa, quindici di gradazione. Merito dei vignaioli ultratombali, workers doc che seguivano le disposizioni dettate dalla Commissione. I calzoni lunghi un metro ciascuno, su teglie di legno al centro del tavolo. Ognuno si serviva tagliando la propria fetta. Allegria e risa di cornice. Su vassoi diversi, rotondi e dorati e su un secondo oblungo tavolo, sostavano le aringhe con olio ultravergine - ultratombale; il carpaccio con rucola selvatica della lontana foresta pluviale e i pomodorini di serra; le orate, il tonno ed altro pesce azzurro artico. Mangiucchiando, uno disse: "Allora, siamo tutti d’accordo per la manifestazione. Bisogna fissare una data."
Un altro aggiunse: "E’ la giusta risposta al comizio di ieri."
"E’ arrivata l’ora di organizzarci e di fare opposizione attiva. Le cose devono cambiare."
Uno rettificò dal capotavola: "Radicalmente cambiare. Devono cambiare dalla radice. La Commissione è corrotta. Lo sappiamo. Solo le pratiche di quelli che sganciano soldi vanno avanti."
Una donna che gli stava di lato disse: "Fanno anche melina. Ritardano apposta le pratiche per avere maggiori sovvenzioni ed aumenti salariali. Me l’ha detto un’amica che lavora in uno di quegli uffici."
Un altro aggiunse: "Ho saputo che stanno ritardando i nuovi arrivi."
"Spiegati meglio."
"E’ come se la gente sulla Terra non morisse più. Sembra che gli ultimi arrivati siano quelli di maggio 2009. Da allora, nessuno ha visto da queste parti un nuovo arrivato."
Alterio Giorgio disse: "Io ho cessato la mia esistenza sulla Terra il 27 di maggio del 2009."
"Allora, sei uno degli ultimi fortunati ad essere stato resuscitato. Ci dobbiamo ribellare. Hanno paura e non vogliono nuovi arrivi."
Uno dalla parte opposta del tavolo disse: "E’ accaduto spesso che non pervengano resuscitati. A volte passano anche sei, sette mesi."
Alterio Giorgio si sentì obbligato a ragguagliare, riferendo il caso di Carmela: "C’è un altro fatto. La mia amica qui ha cessato di vivere nel 1857 e da allora aspetta che la Commissione la chiami."
Ci fu un coro di incredibile. Disse uno: "Non si può andare avanti così. Dobbiamo reagire. Dobbiamo sovvertire l’ordine presente. Dobbiamo bruciare tutti gli uffici della Commissione e le loro pratiche."
Lo stesso si era alzato e col bicchiere di birra ben sollevato al cielo aveva detto: "Io brindo in onore della rivoluzione."
Quello a lato sinistro, aveva vataljato: " Si brinda col vino. La birra porta male."
L’altro si era scusato con lo sguardo ed aveva detto: "Non lo sapevo."
Uno aveva sentenziato: "Nei matrimoni, la birra si beve alla fine. Solo alla fine."
Allora, quello che voleva brindare con la birra si era appropriato di un elegante bicchiere di vino rosso spumoso e sollevandolo in alto aveva proferito: "Viva gli sposi."
Quello vicino si era alzato a sua volta e col bicchiere pieno di vino aveva detto: "Brindiamo per cambiare le cose."
"Bravo. Ci dobbiamo organizzare."
"Io so che solo quelli che non hanno soldi per pagare sono condannati a lavorare qui e alla fine ricevono la sentenza di essere destinati all’inferno. Chi è ricco e sgancia soldi a quelli della Commissione si salva e a seconda della somma elargita, merita il purgatorio o il paradiso."
"E’ uno schifo. Solo chi non ha soldi merita l’inferno."
Ci fu un fracasso e grida all’entrata. Un uomo ansante stava per penetrare nel locale, ma degli sbirri lo bloccarono proprio sotto lo stipite. Due sbirri avevano agguantato il giovane che aveva gridato la parola rivoluzione e lo avevano ammanettato. Il terzo sbirro che doveva essere il comandante della ronda aveva gridato: "La dichiaro in arresto per incitamento alla sovversione. La sua pratica sarà distrutta e lei cesserà di esistere perché condannato a morte."
Girando lo sguardo all’interno del ristorante con tutti gl’invitati perplessi, lo stesso sbirro disse: "Questo sia di esempio a tutti."
Il giovane obiettò: "Ma non ho commesso alcun crimine. Sono innocente."
Il capo della ronda disse: "E’ lei Carmine Ruocco detto il rivoluzionario?"
"Sì, sono io, ma ditemi le mie colpe."
Il giovane era terreo in faccia. Il poliziotto gridò forte in modo che anche gli altri udissero: "E’ in arresto. Lei è un sovversivo."
La frase aveva fatto effetto perché nessuno osò fiatare. I poliziotti trascinarono il giovane via mentre questi gridava la sua innocenza, strisciando a terra i tacchi. Adesso, il prigioniero aveva inarcato la nuca ed aveva gridato:
"La forza del diritto vincerà."
Tutti tacquero. Uno molto giovane gridò contro i gendarmi: "La vostra partita è persa. Nessuno vi crede più."
Il capo gendarme allora si era voltato e tornato sulla soglia aveva puntato l’indice contro il giovane. Aveva lo sguardo pieno di odio, ma non disse niente. Poi fece cenno agli altri poliziotti di andare via. Quando i gendarmi furono spariti con il prigioniero, uno disse: "Non facciamoci intimidire. Dobbiamo scendere tutti in piazza."
Disse lo sposo: "Ci mancava anche questo. Pensiamo alla mia festa piuttosto. Scusate, ma che ce ne fotte della rivoluzione?"
Disse uno: "Giusto. Che ce ne fotte. Noi stiamo bene così. Siamo dei privilegiati. Riceviamo l’assegno mensile di mantenimento e non lavoriamo mai. I condannati lavorano per noi. I workers lavorano qui. In modo o nell’altro, la Commissione ci garantisce l’esistenza per questi centocinquanta e passa anni. Fingiamo di credere alle fesserie della Commissione."
Disse uno: "Già. Pensate solo a vivacchiare mentre quelli dalla Commissione fanno il bello ed il cattivo tempo. Le loro sentenze e certificati non servono. È una messa in scena per garantirsi il potere."
Disse una bella signora senza molto gridare: "Ho un amico nella Commissione. Mi ha detto che questo mondo è in realtà l’introvabile continente di Atlantide, sprofondato in una diversa dimensione dello spazio-tempo. Questo mi ha detto. Loro, quelli della Commissione hanno antichi papiri, scritti nella notte dei tempi."
Disse l’amica vicina: "Io so che i fantasmi che alcuni vedono sulla Terra, siamo noi. Ci sono ondulazioni dello spazio- tempo e in queste ondulazioni brevi, siamo visibili nel mondo parallelo, quello da cui proveniamo."
Tutti fecero silenzio, perplessi. Disse lo sposo: "Adesso è festa. La mia festa. Signori, vi prego parliamo di altro."
Ubbidendo al cenno dello sposo, il tenore cantò la melodia della felicenotte. Il tenore era il resuscitato Andrea Bocelli, resuscitato e vedente. Cantava il suo successo terrestre: Con te partirò.
Trasportate dalla melodia, alcune dame con la faccia super imbellettata, con finti nei agli zigomi ed al mento, si commossero. I ricordi dell’altra vita emergevano tra le note della bocelliana melodia.
Quando il tenore finì di cantare, fece un inchino verso gli sposi e si andò a sedere tra gl’invitati che si complimentarono con lui. Tutti avevano ripreso a mangiare ed a bere. Vincenzo Monaco ventisettenne dandy vissuto sulla Terra negli anni Trenta del Novecento era nel penultimo posto sul lato destro del tavolato. Si era alzato proponendo un brindisi:
"Salutiamo con ottimo spumante la spumeggiante coppia."
Monaco Vincenzo aveva un garofano rosso all’occhiello. All’unisono, i presenti avevano levato in alto i calici. Alcuni si erano alzati con modesto inchino. Viva gli sposi! Lunga vita coniugale al dott. Philippe Starck ed alla dott.ssa Amanda. Ognuno trangugiava, brindava e chiacchierava, seduto sulle comode e massicce sedie ad alto schienale. Quasi tutti dicevano cose liete che facevano sorridere gli altri. Disse Philippe Starck: "Signori non dimenticate che ho disegnato io queste sedie, quand’ero ancora in vita."
Disse lo sposo: "E’ un onore per noi posporre i deretani su queste insuperabili sedie."
Si alzò di nuovo il dandy monaco Vincenzo, ragguagliando: "Signori, è obbligo sapere che Philippe Starck è stato un grande designer cessato di vivere sulla Terra nel luglio del 1999. Negli anni Cinquanta e Sessanta, era stato pioniere nella sperimentazione di materiali innovativi. Di lui avevano scritto sulla Terra: il design ce l’ha stampato nel DNA. Philippe Starck cominciò con piccoli mobili per Le Mobilernational e poi inventò una tecnica per creare sedie e poltrone di forma scultorea, lavorando su strutture di acciaio tubolare e su legno di noce. Leviamo di nuovo i calici in suo onore. Viva gli sposi."
La dott.ssa Armenti si sentì in obbligo di tessere lodi alla sposa, almeno per una forma di par condicio. La dott.ssa Armenti aveva lasciato in guardaroba il cappotto nero monopetto di lana Carlo Pignatelli, outside da 600 euro ultratombal. Indossava una maglia rosa Mohair Garzata, Prada da 500 euro ultratombal; sotto la maglia la camicia di velluto, RAF by Raf Simons, 200 euro ultratombal; pantaloni di lana ampi, Romeo Gigli by Gentucca Bini, 400 euro ultratombal e ai piedi scarponcini Hogan 300 euro ultratombal. La dott.ssa Armenti disse: "La qui presente sposa non ha bisogno di lodi: la sua bellezza e charme sono eccezionali. La dott.ssa Amanda Luana Strozzi sulla Terra fu una grande giornalista degli anni Sessanta. Scrisse articoli sui migliori quotidiani italiani ed esteri come il Financial Times. Scisse anche importanti saggi storici ed un libro sul Vietnam che vinse il premio Roma. Era molto bella, la stessa bellezza di adesso e sulla Terra fu la testimonial dei prodotti per il viso e make up di Rubistein."
Lo scroscio degli applausi mise fine agli elogi. I presenti convennero per un nuovo brindisi in onore della sposa la quale aveva prevenuto tutti salmodiando: "Signori, la cosa più bella della vita è la vita stessa. E’ un miracolo che siamo risorti, anima e corpo. Il resto non importa. Qui le mie giornate non sono mai uguali, sennò non vivrei più. Diventerei un automa dell’esistenza. Le mie giornate sono come le vuole il vento. Signori, la vita serve a molte cose, ma soprattutto ad essere coscienti di essere vivi."
Uno sentenziò: "Io mi sento una fotocopia di ciò che fui."
Ridacchiando, uno fornì una risposta alla sentenza: "Meglio fotocopia che niente."
Era il crepuscolo e lì fuori la città taceva in incombenti tenebre.
Carmela si era alzata per il brindisi solenne, ma si era sentita mancare. Il calice le era scivolato di mano, frantumandosi sul pavimento. Tutti azzittiti ad osservarla. Qualcuno forse intuì la tragedia. La donna si fece forza sulla spalliera della sedia ed Alterio Giorgio d’istinto cercò di sorreggerla.
I due si guardarono in silenzio. Carmela aveva preso ad indietreggiare tenendosi una mano al petto, come se qualcosa la stringesse dentro. I suoi occhi cercavano aiuto. Disse con voce strozzata: "Aiuto."
Gridò: "Mio Dio, aiutatemi."
Si era girata verso Alterio Giorgio nella speranza di essere aiutata; aveva cercato una mano come ancora di salvezza per evitare di precipitare nell’abisso. Invisibile abisso. Abisso insondabile dal quale non sarebbe mai più riemersa. Lo sguardo disperato. Il suo volto pallido, di un pallore innaturale. Gli occhi sembravano molto più grandi e lo fissavano stralunati. Adesso, il volto era bianco e vuoto. La bocca pallida, anemica. Alterio Giorgio si prodigò come meglio a sorreggerla. Qualcuno dei presenti terrorizzato capì. Le grida di Carmela cessarono anche se lei si dimenava. Alterio Giorgio invece gridò: "Carmela."
Lei non sentiva più. Divenne una figura diafana, trasparente come vetro o lastra di ghiaccio. Come una fiamma nell’ultimo afflato, la sua figura muta ondeggiò, defluì dall’abbraccio disperato di Alterio Giorgio e scomparve in pochi attimi tra il clamore dei presenti. Le dame in preda ad isteria. Alcuni a guardarsi attorno nella speranza irragionevole che la ragazza riapparisse. Qualcuno sbirciò sotto il tavolo. Alterio Giorgio fu lì per svenire. Era precipitato sulla sedia piangendo. Lo sposo era corso a porgergli dell’acqua. Il dandy anni Trenta gli disse: "Coraggio, se ti può consolare, ho ripreso la scena con la cinepresa portatile. Sono le ultime immagini della tua amica. Se vuoi, domani ti faccio visita e te le mostro."
Alterio Giorgio sentiva appena. Fece cenno di sì. C’erano dame che dicevano: "Poveretta, che disgrazia."
"Poveretta, è scomparsa."
"Terribile!"
La festa compromessa. Alterio Giorgio ebbe la forza di alzarsi. Disse: "Signori, scusatemi. Preferisco andarmene a casa."
Lo sposo gli gridò: "Vuoi che qualcuno ti accompagni?"
"No, grazie. Preferisco fare due passi da solo e poi rientrare."
Prelevò cappello, cappotto, sciarpa, la borsetta di Carmela ed uscì. Prima di chiudere la porta si era girato dicendo: "Scusate… scusate."
Uno degl’invitati disse ai vicini: "Non dovevano portarla qui. Si sapeva che stava per scomparire. Quell’uomo che l’accompagnava ci ha guastato la festa."
Una dama inghirlandata, asciugandosi le lacrime disse: "Lei è cattivo. Quella poveretta non voleva rovinare la festa a nessuno. La stessa sorte toccherà un giorno anche a noi. Comunque, quando si sparisce è un triste evento. Non ci si può chiudere in casa per evitare di dare scandalo nel momento in cui si scompare per sempre."
Alterio Giorgio era sbiancato come un cadavere. Sembrava non udisse più le voci attorno. Riuscì a trattenere il pianto. Alcune lo guardavano e piangevano in silenzio. Prima di chiudere la porta, guardò dov’era seduta Carmela ed ebbe un nodo in gola. Esistenza come macigno. Gli era corso dietro il dandy anni Trenta, ma aveva insistito perché lo lasciassero solo. Luna piena in terso cielo. Gelida sera incantata. Luce argentea sui cumuli di neve ai bordi della strada e chiarore sul piatto fiume che curvava sotto il ponte, in direzione mare. Stasi invernale e platani che graffiavano la cavità del cielo con dita scheletriche. Alterio Giorgio non poteva accettare che fosse sparita in quel modo assurdo. Amore! Quante cose voleva dire questo nome. Amore è la delicata dolcezza della pelle della donna amata. Amore è la più alta commozione dello spirito. Amore è il più elementare desiderio di felicità. Sono qui che cammino coi miei nuovi quarant’anni, caduto e risorto. Forse non speravo di risorgere, forse non lo volevo… non volevo resuscitare.
A qualche centinaio di metri dalla casa, prese a sinistra per il declivio innevato che scendeva sul fiume. Ubbidiente allo strazio ed alla disperazione, scese verso il fiume. Abisso. Pensò: apparteniamo al tempo e l’unica rivolta possibile è la morte. Estraneo sono a tante cose che non mi appartengono. Questa nuova vita mi rende ancora più estraneo ai ricordi, a ciò che fui ed a ciò che per sempre amo. Alla fine di ogni esistenza c’è sempre la morte. Plurima vita e plurima morte. Più si vive e più si soffre. Più si vive e più difficile è sopportare il macigno che la morte ci scaglia addosso.
La città era infinitamente lontana, appena un vago brusio. La catena delle ore si era franta ed il tempo era senza voce, immobile. Una luna bianca pendeva su un mondo sconosciuto. Una luce pallida si librava come un’aureola dietro le case scure. Una luce bianca, morta, squillava silenziosa contro un cielo slavato, color ferro. La luna piena dalle parti del palazzo della Commissione. Guardò la luna che con la sua luce nascosta succhiava al mondo i colori. Il mondo del suo passato recente e remoto, un passato pieno di volti impietriti: Carmela e poi gli amici morti ed il figlio vivente sulla Terra. L’esistenza piena di addii penosi e di una solitudine ormai di là da ogni lamento. Alterio Giorgio avrebbe voluto evitare che Carmela scomparisse, rapita dal Nulla. Il Nulla è identico dovunque. Alterio Giorgio avrebbe voluto fermare il tempo, quando il Nulla era entrato nella mente di suo padre, malato di Alzheimer. Prima di morire, il padre stava seduto in poltrona fissando il soffitto, ma consapevole di dover morire. Lo aveva detto in uno dei rari momenti di lucidità: per me è finita. Lo aveva detto per mettere in allarme il figlio che ormai doveva fare tutto da solo. Alterio Giorgio pensò alla madre morta una diecina di anni dopo suo padre. Era curva dietro la finestra a fare uncinetti. Era cardiopatica e morì d’infarto in una corsia di ospedale. Resa completa. L’ombra immensa del Nulla ci coprirà ed inutile è sopravvivere. Vivere in una seconda esistenza e rendere più angosciante e terribile il definitivo momento, quando tutto finisce. Morte, abisso, solitudine e sfacelo. La nuova esistenza piena di angoscianti ricordi. Scollamento. Si accorse di dover vivere. Condannato alla vita. Condannato ai rimorsi. Condannato ad andare avanti così per altri centocinquanta–centosessant’anni per poi scomparire all’improvviso, senza una ragione precisa. Carmela oltre remoti mondi. La mente di Alterio Giorgio a ripetere in cavo delirio: laggiù è la meta, il silenzio, il Nulla che nessuno oltraggerà. Percorse il nevischio degradante sul nero fiume. Con le scarpe scivolava e procedeva come automa. A volte, le scarpe affondavano nel bianco manto uniforme che s’interrompeva bruscamente sui bordi del bigio fiume ghiacciato. Aria leggera, tagliente e fresca. Il carro dell’esistenza comincia a rotolare senza una guida. Dietro l’orizzonte della coscienza l’assurda fine di Carmela riappariva, balzava fuori dalla tomba, il nodo si scioglieva, le ombre accorrevano, il sangue bolliva, le ferite dei ricordi trasudavano, la tempesta nera infuriava contro tutti gli argini, contro ogni baluardo. Adesso, la lampada del destino assurdo illuminava un mondo sfasciato e senza senso.
Nulla aveva senso. Blocchi e lastroni di ghiaccio staccatisi dagli argini galleggiavano trasportati dalla corrente del fiume, lamine lucenti ad urtarsi, ad accavallarsi prima di raggiungere l’estuario e l’oceano glaciale. Tutto arresosi al disfacimento. Il vuoto nelle miserie del mondo per quanto vasto e mutevole fosse. Sui dossi, le luci della città dormiente. Alterio Giorgio volle immergersi nel cuore del disfacimento. Serrò gli occhi, gettandosi a peso morto nel fiume per annegarvi l’esistenza. Si sottraeva all’assurdità di morire e risorgere per poi sparire di nuovo, all’improvviso. Lì la Commissione nulla poteva. Il gelo era atroce, ma gli dava la definitiva libertà. La corrente intorno al suo corpo faceva impeto e gorgo. Acqua nera e gelida. Morte. Una lastra di ghiaccio gli si era ficcata tra la testa, la nuca e la spalla come lama di spada. Il corpo affondò e scivolò via nella corrente. Mentre si abbandonava alla morte, avvertì una forte presa sul bavero del cappotto che lo tirava su. Gli parve di essersi impigliato in un tronco sghembo. Invece qualcuno o qualcosa lo tirava a riva con energia. Qualcuno lo aveva afferrato, abbracciato e rivoltato ai bordi della corrente. Scorse come un’ombra umana su di lui. Nell’aria, il roteare delle pale di un elicottero. Lucore lunare franto dal fragore delle possenti pale dell’elicottero sopra di lui. Qualcuno lo imbracò con una fune e si sentì tirare su verso l’abitacolo dell’elicottero. Il corpo di Alterio Giorgio tirato dentro da quelli del soccorso. Si sentì perdere ogni forza. L’individuo in tuta impermeabile che lo aveva imbracato e tirato su nell’elicottero era una donna ed aveva detto agli altri due della squadra di salvataggio: "Sta perdendo i sensi. Bisogna trasportarlo subito in ospedale, nel reparto specializzato per il trattamento dell’ipotermia."
Alterio Giorgio ruotava gli occhi. Si sentiva svenire. Grazie a quella strana sindrome ultratombale, aveva capito che la donna indossava una tuta antivento, imbottita impermeabile in Nylon Oxford con PU. Imbottita con Nylon appunto, otto tasche e chiusura con zip automatico. Prezzo ultratombale: 160 euro (inflazione al 1%). Tossendo, si sforzò di dire: "Grazie. Grazie, dopotutto."
Si sforzò di sorridere, ma era sfinito. La donna, una bella ragazza dal fisico tosto l’osservò e disse: "Lei non è ancora salvo. Rischia una congestione. Rischia la febbre e può passare il resto dell’esistenza paralizzato."
Disse agli altri due che erano maschi di aiutarla. La soccorritrice gli aveva sbottonato gli abiti e sbracato i pantaloni. Aveva cominciato a sfregarlo vigorosamente per tutto il corpo: schiena, ventre, cosce e gambe. Lei era calda. Alterio Giorgio sentì il sangue riprendere calore e forza. Il corpo gelato si riprese. La donna con straordinaria forza se lo tirò in fondo all’abitacolo, meglio riparato. Alterio Giorgio volle ridere. Sotto quella tuta due toste mammelle. La donna se lo era tirato a sé come per allattarlo. Lo riscaldò col tepore del suo corpo e coi battiti del suo cuore sembrò resuscitarlo per l’ennesima volta. Lo aveva riscaldato e aveva provveduto a tamponargli la ferita alla nuca. Il fragore dell’elicottero riempiva la stasi notturna. Il mezzo virò verso sinistra, diretto all’ospedale. La luna piena con forte chiarore sembrava osservare ogni cosa, impassibile. Alterio Giorgio non avvertì più niente, avendo perso i sensi. Rinvenne in ospedale. Al posto della ragazza del pronto soccorso, medici ed infermieri coi camici bianchi. Era in una stanza di ospedale ben riscaldata. Nella vena mediana del braccio, i tubi della flebo. Era stato incubato prima che riprendesse i sensi e gli avevano somministrato dei farmaci anti-ipossia ed anti-ipotermia. Il primario lo vide rinvenuto e gli parlò: "Signore, la squadra di salvataggio ha fatto un ottimo lavoro. L’ha salvata appena in tempo. Adesso non si agiti. Starà qui alcuni giorni finché non si sarà ripreso. Lei ha una brutta ferita alla nuca. E’ salvo per un pelo. La squadra di salvataggio ha fatto un ottimo lavoro."
"Siete stati tempestivi. Grazie. Dopotutto grazie."
"Lei voleva morire. Molti dei resuscitati hanno momenti di grave depressione nel primo mese di resurrezione. Il vero pericolo è nei primi tre mesi, ma il primo è il più terribile. Per questo, abbiamo istituito delle squadre di pronto intervento. Per il primo mese c’è qualcuno che vi segue, anche se voi non ve ne accorgete. Oppure, avete speciali sensori da qualche parte negli abiti, o in casa. Così è stato per lei. Passato il primo mese, l’incidenza dei suicidi cala e si arresta quasi del tutto al terzo. E’ molto raro che uno decida di farla finita dopo il terzo mese di sopravvivenza. Solo la Commissione ha il diritto di vita e di morte. Se lo ricordi."
Alterio Giorgio si accorse di non poter muovere il collo. Doveva aver subito una ferita quando era immerso nella corrente ghiacciata. La sera stessa venne a visitarlo la ragazza il cui tepore gli aveva dato forza. La ragazza che lo aveva tirato su dal fiume ghiacciato, che lo aveva imbracato e trasportato in elicottero si presentò: "Sono Elena Nube."
Si era seduta sull’unica sedia a lato del letto, tra letto e consolle su cui erano posate delle medicine e piccole bottiglie di disinfettanti. La ragazza gli sorrise e disse: "Stava per morire davvero."
Alterio Giorgio la vide più bella, coi capelli neri, molto folti a serpentina sulle spalle. Aveva un cappottino chiaro con una pelliccia bianca lungo i bordi del bavero a girocollo. Da sotto, fuoriusciva la maglia a collo alto. Avvertì una fitta alla nuca e ci portò la mano. C’era la medicazione in quel punto. Elena Nube si era stretta la borsetta in grembo. Disse: "La lastra di ghiaccio l’ha ferito. Adesso è salvo. Stava per annegare. Aveva sporto la testa in alto, forse per istinto di sopravvivenza ed allora un lastrone di ghiaccio le stava segando il collo da dietro la nuca. Comunque, forse non sarebbe morto. Lei sarebbe rimasto in stato di semicoscienza, semi assiderato a galleggiare nell’oceano Artico per i restanti centocinquanta anni. Sarebbe diventato come una mummia incartapecorita per i restanti anni di sopravvivenza qui. Terribile..."
"Grazie. Non so perché avevo deciso di farla finita. Ero in uno stato di terribile depressione. La mia ragazza era sparita ed io ero rimasto solo."
"So tutto. Ma si calmi."
"La prego, mi dia del tu, se vuole. Lei è molto bella. Se non fosse intervenuta, adesso sarei a galleggiare nell’oceano artico per i restanti miei anni dannati."
La ragazza gli aveva accarezzato la mano che stava fuori dalle coperte. L’altra era fasciata. Alterio Giorgio avvertì di nuovo quel calore che lo aveva resuscitato. Disse dandole del tu: "Siediti qui, accanto a me, ti prego."
Anche lei era passata al tu: "Hai le labbra aride. Vuoi acqua?"
"Sì, ho sete."
Elena Nube gli riempì un mezzo bicchiere di acqua dalla bottiglina sul comodino e lo aiutò a bere tenendogli una mano sotto il mento. Alterio Giorgio aveva la gola arsa e bevve subito. La ragazza disse: "Aspetta che viene il medico. Chiedi a lui se puoi bere. Io adesso vado. Ho chiesto quando ti faranno tornare a casa. Hanno detto che domani puoi tornartene a casa. Se vuoi, posso chiedere un giorno di permesso dal lavoro ed accompagnarti a casa. Alterio Giorgio si sentì aprire il cuore. Era molto bella ed il rimorso per Carmela Carrese si stava assottigliando. Sentì che voleva piangere. Disse: "Elena, grazie. Sei una donna meravigliosa."
Lei si era chinata verso la sua guancia e gli aveva detto: "Coraggio. Sei di nuovo tra noi."
Lo aveva baciato di sfuggita sulla guancia. Uscendosene gli aveva detto: "Ci vediamo domani. Ti porto io a casa. Servizio a domicilio."
Pensò che nel nuovo aldilà le donne non avrebbero mai avuto la menopausa. Tutte giovani o giovanili per centocinquanta, centosessant’anni. Si poteva amoreggiare senza la paura di uscire incinte. Chi desiderava figli non ne aveva, questo sì, ma per chi voleva solo scopare non c’erano problemi. Chi voleva avere figli nel secondo aldilà doveva rassegnarsi alla sorte. Una nuova fitta al collo causata dalla ferita lo costrinse ad interrompere le pacate disquisizioni sull’ultraterrena menopausa. Disse tra sé e sé: eccomi di nuovo vivo.
In tarda mattinata, poté tornare a casa. Elena Nube lo aveva aiutato a vestirsi e lo aveva accompagnato a scendere per le scale dell’ospedale. Alterio Giorgio aveva uno spesso collare di cartone plastificato intorno al collo fino alla parte posteriore del cranio, compresa la nuca, tutta fasciata ed incerottata. Lungo le corsie, altri degenti per traumi, dovuti per lo più ad incidenti di auto. Non si vedevano vecchi e ciò faceva sembrare quei luoghi asettici come un particolare posto di cure termali, dove ci disintossica. La ragazza era un po’ più alta di lui, un vero angelo custode. Era certo di piacerle. Sulla Terra aveva avuto meno fascino, ma anche lì piaceva alle donne. Le cose dopotutto non erano molto diverse. Però quando fu vivo sulla Terra non aveva mai tentato il suicidio. L’ospedale era su un rilievo collinoso, distante dagli edifici della città per un paio di chilometri. Era nevicato da poco e c’era un biancore splendente, ondulato sulla terra ed interrotto da radi alberi spogli. In lontananza, dalla parte opposta della città, verso l’aeroporto, il folto bosco di eucalipti verdeggiante anche d’inverno. La carreggiata era ampia e rare macchine come rade erano le persone, dovunque. Nell’abitacolo, c’era il riscaldamento acceso. Lì fuori c’erano come minimo cinque – sei gradi sotto lo zero. Alterio Giorgio non poteva muovere il collo e di compenso ruotava gli occhi ogni tanto verso di lei. Disse: "Sei il mio angelo custode. Ti devo tutto. Sei anche molto bella. Un angelo appunto…"
"Il primario ha detto che verranno a visitarti a casa. Hai una brutta ferita alla nuca. E’ molto profonda. Forse devi tornare in ospedale. Così hanno detto."
"Non so perché l’ho fatto. Volevo farla finita. E’ stato come se tutte le forze vitali mi fossero venute a mancare e il mondo fosse tutta una piaga di dolore. Dolore infinito da cui bisognava fuggire per sempre. Adesso sta passando. Tu mi hai salvato due volte."
Alterio Giorgio voleva di nuovo piangere, ma riuscì a trattenersi. La ragazza levò la mano dallo sterzo e gli strinse la sua per un po’. Il calore delle dita di lei lo riportò ancora di più alla vita. Adesso, stavano svoltando tra i primi sobborghi. Sui marciapiedi i cumuli di nevischio e di sporcizia che i workers della nettezza urbana non avevano smaltito ancora, lavorando di notte. Elena Nube disse: "Si chiama Sindrome da Reflusso Vitale (S.R.V.). Ne sono affetti molti dei resuscitati. Direi la stragrande maggioranza. Dopo il primo mese di vita ultraterrena, il pericolo cessa quasi del tutto. C’è pericolo fino al terzo mese, ma è raro che dopo il primo mese di sopravvivenza ci si decida a suicidarsi. Hai cercato di ucciderti perché assalito dalla terribile sindrome. Per fortuna, a me non è mai venuta. Adesso, sei quasi alla fine del terzo mese di esistenza qui."
Si guardarono fisso in silenzio, per un attimo. Lei doveva guidare. Alterio Giorgio avvertì un travolgente, appassionato bisogno di esserle vicino. Si sentì strano, inquieto, ma per poco.
Aveva parcheggiato davanti al cancello della casa, aiutandolo ad entrare. Oltre l’androne ed il breve corridoio, c’era il salotto col camino spento. Lo stabile era rimasto freddo da più di un giorno. C’era quasi la stessa temperatura gelida che stava in strada. A poca distanza, un lungo divano. Si era disteso sul divano e lei gli aveva messo dei cuscini sotto la nuca fasciata ed una coperta di lana a coprirne il corpo. Elena Nube si era poi tolto il cappotto impellicciato e i lunghi stivali di renna ultatombali. Aveva chiesto: "Ci sono pantofole?"
"Stanno sotto l’accappatoio. Ne tengo di varie misure. Sono per gli ospiti."
La ragazza si era infilata le pantofole. Per la precisione, erano le stesse che giorni prima aveva calzato Carmela Carrese. Elena Nube aveva una gonna di lana di Scozia a quadroni che le arrivava fino agli stinchi e sopra una maglia a collo alto beige. Risaltavano i pingui seni appuntiti ed elastici. Era svelta e l’elasticità di quel corpo giovanile rendevano le rapide movenze come quelle di un atleta. Ogni curva di quel corpo era armonica; non per niente faceva parte della squadre di pronto intervento per il salvataggio dei suicidi. Di certo, si allenava in palestra. I capelli neri, crespi a serpentina fin sopra la schiena. Zigomi prominenti ed occhi neri, a mandorla con la fronte arcuata. La pelle bruna come le donne del Mediterraneo, sulla Terra. Alterio Giorgio posava su di lei lo sguardo triste, sofferente accentuato dagli occhi cerulei un po’ infossati ed ombrosi. Quello sguardo cupo, non si spiegava come, piaceva alle donne. Forse ne risvegliava gl’istinti materni. Era andata nello scantinato a prendere legna ed aveva acceso il fuoco nel camino. Il rossore della vampa illuminò e prese a riscaldare l’ambiente. Alterio Giorgio aveva sete e lei gli aprì una bottiglia di minerale. Anche lei bevve. Lui le fece posto sul divano. Sembravano amanti etruschi in lettiga. Si baciarono riscaldati dalla vampa. Alterio Giorgio sopportò bene il bruciore della ferita alla nuca. Elena Nube gli accarezzò la fronte, lo guardò diritto negli occhi, e lo baciò con affetto sulla bocca. Disse: "C’è pericolo che ti venga la febbre."
"Il dottore mi ha prescritto gli antibiotici per cinque giorni."
La ragazza andò ad attizzare il cammino. Adesso la vampa lambiva con le sue lingue l’arco del grosso camino. Elena Nube gli si stese di nuovo al fianco sotto la coperta. Dopo baci, carezze ed effusioni, Elena Nube disse: "La più bella cosa della vita è la vita stessa. Essere coscienti che si è vivi è di per sé fonte di felicità."
"C’è chi non vuole vivere."
"Penso che chi non vuole vivere, in realtà ama disperatamente la vita. Solo che vuole una diversa vita."
"Mi accontenterei che venissi di tanto in tanto a trovarmi. Che potessi ritrovare il tuo sguardo davanti a me. Che potessi toccarti... sentire il tuo respiro."
"Continua, amore."
Lo aveva chiamato amore. Quella parola lo intimorì, quasi lo commosse. Alterio Giorgio le disse: "A volte, l’amore è come una fiamma su stoppie secche. Non si ha che questo, e ciò lo rende diverso, più violento, più profondo, più ossessivo."
Si vedeva che era commossa anche lei. Disse: "Vuoi bere qualcosa, Giorgio? Vuoi altra acqua minerale?"
"Credo che un poco di vodka non mi danneggi ulteriormente."
La ragazza andò a prelevare la vodka da una consolle. Riempì due bicchierini colmi, uno per lei e l’altro lo porse in bilico a lui. Elena Nube disse: "Non bisogna rifletterci troppo. Non siamo nella situazione adatta per riflettere. Ci logoriamo soltanto. E noi non vogliamo logorarci, vero?".
Alterio Giorgio aveva svuotato il bicchierino: "Io sono già logoro. Grazie a te, ora rivivo ancora."
Elena Nube scrollò la testa. "Amavi molto quella donna, Giorgio?"
"L’avevo conosciuta da poco. Si chiamava Carmela, Carmela Carrese ed era di Napoli. Una che sapeva che da un momento all’altro doveva scomparire per sempre."
Elena Nube lo ascoltava in piedi a poca distanza dal divano dove lui era disteso. La vampa riflessa nei suoi occhi chiari li rendeva ancora più lucenti. Quegli occhi sembravano frugargli dentro. Le faceva pietà? Provava un affetto materno per lui? Si sentiva la sua salvatrice? Lei finì il bicchierino e lo portò nel lavabo insieme con quello svuotato da Alterio Giorgio. Sembrava stanca.
"Perché è tutto così complicato, Giorgio? Perché? Deve pur essercene la ragione. Altrimenti, come ce lo chiederemmo?"
Egli sorrise triste.
"La più antica domanda della storia umana, Elena. Perché? La domanda contro la quale s’è infranta ogni logica, ogni filosofia, ogni scienza. Lì sulla Terra e qui, in questa nuova Terra."
La vampa diede sonnolenza alla fine. Lei gli si era distesa accanto, sotto la stessa coperta. Gli piaceva il tepore del corpo contro di sé. Per la spossatezza, Alterio Giorgio cercò di addormentarsi con la fronte sulla spalla di lei. Di colpo tutto divenne assurdo, impossibile: ancora una notte, una notte sola, ancora una volta la sua testa dolorante sulla spalla di lei, sul petto di lei. Domani avrebbe ricominciato a lottare, ancora una volta quel respiro accanto a sé, ancora una volta, nel precipitare, la dolce illusione, il caro inganno. Mio angelo salvatore, non andartene, noi moriamo nel dolore e viviamo nel dolore, non andartene, non andartene. Che cosa mi rimane, dunque? Una sola volta una scintilla di eternità ancora! Perché mi hai salvato? Perché sei arrivata a tirarmi su dalla morte definitiva proprio in quella notte che galleggiava sul vuoto, strappata dalle stelle e annuvolata da un’antica angoscia? Perché hai messo in fuga i miei propositi di rompere e procedere oltre, in una notte in cui nessuno più esiste, all’infuori di un’assurdità assoluta? Si era infine addormentato, mettendo pace al caos dei pensieri.
Quando si svegliò, lei era scomparsa. La chiamò per casa, si alzò, andò a vedere nelle stanze, ma lei non c’era più. Chiamò il suo nome. Silenzio. Gli faceva male il collo e la spalla. Si vide allo specchio nell’ingresso: uno straccio. Aveva gli occhi umidi di pianto. Sulla consolle il suo bigliettino. Vengo tra poco. Sono andata al supermarket a fare la spesa. Non combinare guai in mia assenza. Ti ho lasciato il telefonino sulla sedia accanto al divano. Ciao.
C’erano dei clinex per terra caduti dal divano. Gli erano serviti ad asciugarsi il naso. Li buttò nel camino dove le fiamme stavano esaurendosi. Fuori, era giorno inoltrato. Il cielo formava una sottile stria tersa, azzurro verde nel punto in cui da ore era spuntato il pallido sole la cui luce adesso a stento filtrava dal denso, statico corpo di nubi. Sulla strada, il gelido vento spostava frasche e fogliame. Sui marciapiedi, i soliti cumuli di neve indelebile. Solo per poche decine di giorni in estate la neve si ritraeva dalla città, liberando i prati di tulipani e di variopinti fiori di bosco. Prese la legna accatastata di lato al camino e rinvigorì la fiamma. Vuota esistenza senza senso. Depresso lo era sempre stato, in particolare nella precedente esistenza. Stava per accasciarsi sul divano e piangere di nuovo che sentì bussare alla porta. Guardò dallo spioncino. Lei con le buste piene di roba. La fece entrare. Le diede un bacio sulla guancia e lei andò diritta in cucina a mettere la roba in frigo.
Disse: "Caro, alle quindici riprendo servizio. Ti telefonerò in serata. Ti preparo qualcosa da mangiare".
Stette in cucina a preparare da mangiare e poi andò in toilette. Mangiarono davanti al focolare, bevvero del vino rosso marca ultratombale ultravecchio e conclusero con della frutta di serra. Si stavano sbaciucchiando che qualcuno suonò alla porta. Lei lo guardò con espressione interrogativa. Aiutato da Elena Nube, Alterio Giorgio si sollevò dal divano ed andò alla porta. Guardò dallo spioncino e vide che era il dandy della sera prima. Si trattava di Vincenzo Monaco, vissuto sulla Terra negli anni Trenta del Novecento.
Disse: "E’ un mio amico. Lo facciamo entrare?"
"No problem."
Alterio Giorgio gli aprì meccanicamente: "Buon giorno dott. Alterio."
"Buon giorno, come mai da queste parti?"
"Ho saputo di te e della stronzata nel fiume e sono venuto a trovarti."
Il dandy anni Trenta senza attendere l’invito, entrò in casa. Alterio Giorgio chiuse la porta da cui penetravano ventate di gelo. Aveva i brividi, forse era un po’ di febbre. Alterio Giorgio presentò il dandy ad Elena Nube. Dopo le presentazioni di rito, la ragazza volle andare in toilette.
Disse: "Chiedo scusa. Non c’è molto tempo. Devo essere in ufficio alla quindici."
Rimasti al momento soli, Vincenzo Monaco disse osservandogli la ferita: "Brutta cosa. Ti avranno fatto delle suture alla nuca. Da come ti hanno incerottato, la cosa è abbastanza seria."
"Mi hanno dimesso subito. Non so se mi hanno suturato la ferita."
"C’è il pericolo che passi il resto dell’esistenza tra bruciori di testa ed infezioni perenni. Chiedi ai medici. Non scherzare. Ti rovini questo pezzo di esistenza ultraterrena."
"Vediamo come si mette la cosa."
Elena Nube era uscita dalla toilette. Aveva baciato in bocca Alterio Giorgio, gli aveva dato un voglioso ravvicinato sguardo ed aveva detto: "Adesso vado."
Aveva indossato il cappotto, infilato i capelli ribelli sotto un cuffia di lana ed aveva salutato il dandy anni Trenta. Uscendo, aveva detto ad Alterio Giorgio: "Caro, non fare altre fesserie. Ti telefonerò stasera verso le 20.00"
Alterio Giorgio le aveva detto: "Sei il mio angelo."
Rimasti soli, il dandy aveva detto: "Posso sedermi?"
"Prego."
Erano attorno al camino con le fiamme quasi spente. Toccò a Monaco Vincenzo rattizzare il fuoco con nuova legna prelevata nei paraggi del camino. Seduti uno di fronte all’altro, Monaco Vincenzo disse: "Mi manda la Commissione. Sanno tutto. Hai cercato di suicidarti e quella donna del pronto intervento ti ha salvato. Ti hanno localizzato quelli del pronto intervento e ti hanno salvato con l’elicottero, appena in tempo. Ti confesso che anch’io un mese esatto dalla resurrezione cercai di suicidarmi, puntualmente salvato da quelli del pronto intervento. Ti devo rivelare una cosa importante. La Commissione ti tiene in considerazione. Non so perché, ma ci tengono per te. Ti dico subito quello che devi fare. Sono ordini, capito?"
"Ordini di chi?"
"Ordini superiori. Tra giorni, ti sarà comunque tutto chiaro. Verso le cinque del pomeriggio di oggi, arriverà qui il chirurgo, un assistente ed una infermiera per controllare il tuo stato di salute ed eventualmente ricucirti la ferita. Tra giorni, quando le condizioni fisiche te lo permetteranno, se il medico dirà di sì, dovrai presentarti presso la sede centrale."
"Va bene. D’altra parte, mi sembra di capire che non ho alternative."
"Sei stato scelto anche perché sulla Terra, nella precedente esistenza eri un ottimo medico con specializzazione in biologia molecolare. Eseguisti importanti ricerche che potrebbero servire qui. La Commissione ha riesaminato il tuo caso. Allora a domani. Ricorda che tra poche ore verrà l’equipe medica. Adesso riposati e mangia poco, lo sai. Bere molta acqua. Ti ho portato le foto in istantanea della tua amica scomparsa ieri sera durante il matrimonio. Spero t’interessi, anche se vedo che hai già una degna sostituta. Ciao"
Vincenzo Monaco aveva lasciato un pacchetto di foto sulla propinqua consolle.
Disse: "Forse quelle foto ti faranno più male che bene. Comunque te le avevo promesse. Puoi bruciarle, se vuoi. Vedi tu."
"Grazie. Hai fatto bene a darmele. Ho già sofferto. Adesso devo solo riorganizzare la mia vita futura. Quelle foto mi daranno la forza di andare avanti, rafforzando in me il desiderio di capire. Carmela desiderava che lottassi."
"E’ per via della Sindrome. Scatto foto straordinarie. Foto che ritraggono eventi straordinari. Una mania… E tu che tipo di mania hai? O che tipo di Sindrome da sopravvivenza hai?"
"Riconosco le marche ed il costo degl’indumenti."
"Conosco cinque o sei individui con la tua stessa mania. Sono tutte manie riconducibili alla Sindrome da Sopravvivenza Ultratombale, lo sai, no? Alcuni dicono che la degenerazione di questa Sindrome da Sopravvivenza Ultratombale (S.S.U.) sia la Sindrome da Reflusso Vitale (S.R.V.). Supposizioni…"
"Lo so. Me lo hanno spiegato anche se non mi hanno detto che cosa abbia scatenato in me la volontà ferma di suicidarmi."
"La vera causa nessuno la sa. Dicono che sia connessa alla resurrezione anomala dei nostri corpi su questo pianeta. Dicono che sopravvenga una crisi improvvisa d’identità e che l’individuo risolva il tutto col suicidio. Sarebbe il tentativo di sfuggire al forte stress della sopravvivenza qui, il forte desiderio di morire sarebbe il risultato di questo stress."
Alterio Giorgio accompagnò Monaco Vincenzo all’uscio, rimanendo a debita distanza dalla soglia da dove spirava il vento glaciale. Chiusa la porta, si accasciò sul divano, avvertendo un dolore lancinante alla nuca. Gli faceva male il collo e la spalla dal lato della ferita, ma non rimase sul divano. Osservò le foto e poi scese nel laboratorio. In quasi un’ora, aveva allestito cinque poster giganti di Carmela, nel momento in cui stava sparendo. C’era lo sguardo di lei allarmato tra gl’invitati ancora inconsapevoli. Poi lei che lasciava cadere di mano la coppa di sciampagna. Lei che con lo sguardo invocava aiuto, conscia di stare male. La sua immagine che diventava diafana e alla fine come sottile vapore svanire tra l’abbraccio di Alterio Giorgio, impallidito e la meraviglia e lo spavento degl’invitati. Lo sguardo di lei dapprima era smarrito, perso nel vuoto; poi come una richiesta impellente di aiuto – secondo poster gigante – si era rivolta ad Alterio Giorgio, allibito e disperato. Le fitte al collo divennero fortissime; lasciò le foto e salì su, si stese sul divano, aspettando l’arrivo imminente dello staff medico. Aveva attizzato il fuoco e messa nuova legna in camino. Si era steso sul divano, sotto la coperta di lana. Avvertì brividi di febbre e vide che oltre i vetri della finestra il tempo peggiorava con fiocchi di neve vaganti per aria. Accese il televisore. C’erano alcuni programmi d’intrattenimento ed il tg3 terrestre che parlava della crisi economica che attanagliava le nazioni della Terra, nel 2009. La Commissione controllava le notizie dei tg e spesso diffondeva programmi e immagini dalla Terra, da cui la ultratombale esistenza derivava. Nel vedere le immagini proiettate dalla Terra, i trapassati rafforzavano i ricordi della passata vita, si rendevano più sicuri delle rispettive identità ed apparivano più appagati. Esperti neuro-psicologi e neurologi della Commissione lo affermavano con convinzione. Però molti trapassati si chiedevano come mai fosse possibile ricevere programmi televisivi dalla Terra. Alcuni dicevano che la Terra da cui venivano, era in realtà vicina a loro, forse in un diverso contesto spazio-temporale. Ebbe di nuovo sonnolenza, ma sentì bussare. Questa volta, col tasto a comando aprì la porta e sentì una voce che diceva: è permesso? Si sforzò di dire: "Prego. Entrate."
Era il medico ed assistenti. Con discrezione, tutti vennero intorno al divano dov’era disteso. Lo osservarono per pochi secondi in ossequiosa attesa. Disse quello che era il più alto ed anche biondo: "Salve, sono il dottore Botte, Botte Andrea e questa è la mia squadra ultratombale di pronto intervento sanitario. Permette?"
Aveva portato la faccia a pochi centimetri dalla sua e con una mano gli aveva piegato con garbo la nuca. Si era fatto dare delle forbici ed aveva aperto la medicazione. Tagliandogli dei peli come un barbiere, il medico gli disse: "Brutta ferita. Un po’ più in profondità e avrebbe fatto la fine del toro nell’arena. Quel masso di ghiaccio per poco non le ha reciso il midollo spinale. Ah! La ferita è profonda, bisognerà cucire. E’ anche lunga: va dalla nuca, ha lesionato il legamento nucale e scende fino sulla spalla. Ci vorranno molti punti di sutura. Quando è accaduto? Quando si è ferito?"
"Ieri sera sul tardi."
"Dobbiamo portarla in ospedale. Meno male che non si è tranciato il legamento nucale."
"Mi hanno dimesso stamattina."
"Stronzi. Come mai lo hanno dimesso?"
"Non lo so. Hanno detto che potevo starmene a casa."
"Stronzi."
Il medico fece entrare una barella. Due infermieri posizionarono il corpo di Alterio Giorgio sulla barella; lo avvolsero in un manto bianco di lana; gli misero un ago in vena all’altezza del braccio e lo portarono fuori, caricandolo in autoambulanza che partì spedita per l’ospedale. Dopo un po’, fu in sala operatoria. Rivide il dott. Botte che da sotto forti lampade al neon disse: "Sarà operato in anestesia locale, però la ferita è lunga e profonda. Poi dovrà stare qui per quattro giorni durante i quali le somministreremo antibiotici. Al quinto giorno, le toglieremo i punti di sutura e gli applicheremo la medicazione. Poi potrà tornare a casa. Potrebbe andare via da qui anche domani e ritornare per togliersi i punti di sutura, ma è meglio che rimanga qui. Sarà curato in modo ottimale."
Alterio Giorgio fece sì con lo sguardo, visto che si sentiva paralizzato per tutto il collo.
Disse però: "Dottore, mi faccia fare una telefonata."
"Prego. No problem."
Gli avevano passato un telefonino. Alterio Giorgio fece il numero di Elena Nube. La ragazza rispose dopo un po’. Alterio Giorgio disse: "Amore. Sono Alterio Giorgio."
"Lo so. Ti ho telefonato a casa. Dove sei?"
"Di nuovo in ospedale. Devono suturarmi la ferita alla nuca. Dicono che la ferita è molto profonda. Devo stare qui per quattro giorni. Quando potrò vederti?"
"Appena potrò, verrò da te. Coraggio. Ciao. Sto in missione, ciao."
Avrebbero voluto stare l’uno accanto all’altra, annullando lo spazio ed il tempo. La lontananza rafforzava il loro ultraterreno amore, fatto di duplicati sentimenti terrestri.
L’intervento durò qualche ora, o poco più. Sentì soltanto le punture degli aghi per l’anestesia. Era stato rivoltato con la faccia in giù e riuscì a vedere solo i piedi dello staff che lo stava operando. Ogni tanto il chirurgo parlava con una donna, forse l’assistente e di tanto in tanto lo sentiva chiedere: "Mi passi la pinza, grazie, la pinza, sì quella... un nuovo bisturi con lama 0,3… tamponi qua… presto…"
Operavano stando in piedi, al di sopra del suo corpo rivoltato in giù. Operavano sul suo corpo. Ma era stato resuscitato per la terza volta. In anestesia locale, avvertiva solo il vago dolore di alcune suture. Poi, non poteva morire di nuovo. Le parole di Elena Nube gli facevano compagnia. Il nuovo amore nascente gli dava forza novella. Udiva i suoni metallici dei ferri chirurgici mentre gli suturavano la ferita: le pinze emostatiche, il portaghi, il rumore dei ferri deposti nella bacinella sterile. Lo stavano componendo come un giocattolo rotto. Rassegnarsi alla nuova vita. Rassegnarsi a nuovi amori. Gli facessero quello che volevano. Era tutta una stronzata. L’esistenza era tutta una stronzata. Importante è innamorarsi. Innamorarsi per darsi forza nella nuova sopravvivenza. Importante è scopare con una bella donna. La donna giusta, senza molti problemi. La realtà non va capita; non serve indagare oltre. Pensò prima, ma vagamente a Carmela Carrese e poi ad Elena Nube, la nuova fiamma che si era imposta nell’ultraterrena esistenza. Fu rivoltato in su, segno che l’intervento era concluso. Rivide la faccia di giovane donna in camice bianco, forse l’assistente del chirurgo, o forse l’infermiera. Rivide anche il chirurgo, il dott. Botte che disse: "Adesso si riposi. In pomeriggio verranno a controllare la ferita e la disinfetteranno di nuovo. Le faranno una nuova siringa di antibiotici. Alle tredici, le porteranno da mangiare."
Alterio Giorgio disse: "Grazie."
Era rimasto solo nella stanzetta. Dall’unica finestra, si vedeva tutto grigio, segno che il tempo peggiorava. Ruotò i bulbi oculari da destra a sinistra e vide in successione un armadietto metallico nell’angolo, di lato al suo letto, poi la finestra quadrangolare da cui traspariva solo un diffuso grigiore, poi la nuda parete bianca. Di fronte, una specie di quadro di un pittore astratto in cui pure dominavano i grigi ed enigmatiche chiazze bianche, di lato la porta ed alla sua sinistra vicino al letto, il comodino e una sedia. Gli avevano tolto l’ago dalla vena e non c’era più la bottiglina dell’ipodermoclisi. Non c’erano rumori dal corridoio. Sentì un dolce sopore annebbiargli la vista e si abbandonò al sonno pensando: per poco non ci sono riuscito per davvero a suicidarmi.
Verso mezzogiorno dei rumori lo svegliarono. Entrava l’infermiera con il vassoio ed il cibo. Un’altra infermiera venuta subito dopo lo tirò su per il busto, gli aggiustò le lenzuola e sollevò il letto in modo che potesse mangiare. L’altra gli mise davanti il cavalletto col vassoio sopra. Disse: "Adesso mangi. Si sente bene?"
"Sì, ho dormito un po’."
"Qui c’è della spremuta d’arancia. La beva. Poi, sul comodino c’è la bottiglia d’acqua. Riesce a muovere la mano?"
Alterio Giorgio sorridendo disse di sì. Sul vassoio c’era un piatto con una grossa fettina di carne, dell’insalata e una mela, un’arancia e un pezzo di pane fumante. C’era poi il coltello e la forchetta. Disse una delle due infermiere: "C’è la fa a tagliarsi la carne? Ha dolori alle braccia?"
"No, tranne il collo è tutto a posto. Grazie."
"Mangi la carne. Ha perso molto sangue."
"Quante suture ho?"
Quella aveva fretta di andare. Disse: "Parecchie"
"Per favore quante?"
"Una diecina al cranio verso la nuca. Una diecina al collo sul lato destro, e sei-sette alla spalla destra."
"Circa trenta punti."
"Se arrivava a trenta punti avrebbe vinto il premio fedeltà."
L’infermiera uscì ridendo per la sua battuta. Disse socchiudendo la porta: "Verremo più tardi a ritirare il vassoio. Prema il pulsante se ha problemi."
"Grazie."
Erano due infermiere alte e piuttosto magre. Entrambe con un grembiule colore bianco, in cotone massaia, dimensioni 70 x 90, prezzo 90 euro ultratombali o ultratombal come molti dicevano. Alterio Giorgio lo aveva capito al volo grazie alla Personale Sindrome Ultratombale (P.S.U.). Giovanili come tutti del resto. Erano scure di pelle. Trapassate come tutti, forse nella prima vita erano state del sud Europa: Spagna, Portogallo o Italia del sud. Una delle due era però bionda, con riflessi ramati e delle lentiggini sul naso, forse si era tinta i capelli. Aveva anche occhi chiari.
In Italia del sud non erano radi i biondi d’entrambi i sessi, in particolare nella zona casertana di Santa Maria di Capua Vetere, derivanti dalla remota discendenza gota, maggioritaria dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. In altre zone del sud – Italia c’erano molti biondi per derivazione di altre popolazioni nordiche, sovrapposte nell’andare dei secoli come i Normanni e gli Svevi. I più, come le ricerche di genetica umana avevano dimostrato, erano di derivazione longobarda, avendo i Longobardi dominato in Italia per due, o tre secoli. Per non parlare dei Franchi che nel nord si erano sostituiti ai Longobardi. Insomma, in Italia del sud, oltre che del nord, i biondi se minoritari, lo erano di poco. Poi, gli storici dicevano che anche tra i Romani non mancassero i biondi (e le bionde), essendo i popoli italici discendenti dagl’Indoeuropei, la cui branca europea era chiara di carnagione. C’era stata un poco di mescolanza di sangue saraceno e spagnolo, ma i Saraceni si erano fermati in Sicilia e nella provincia di Bari (a Bari non più di settant’anni) e gli Spagnoli anche se dominatori nel sud per alcuni secoli, non erano tutti bruni. C’era nel sangue spagnolo una certa derivazione vandala ed ostrogota.
Alterio Giorgio prese a mangiare. Quando ebbe finito di nutrirsi, premette il pulsante ed una delle due infermiere – la bionda, occhi chiari - rientrò sorridendogli.
Disse: "Bene, vedo che aveva fame. Ha mangiato tutto. Presto si rimetterà. Oggi alle quattro le toglieremo le garze, disinfetteremo la ferita e provvederemo a ricoprirla con nuove garze. Le laveremo un po’ la faccia e le mani. Per fortuna, non ha lesioni ad organi vitali. Non ha subito traumi interni. "
"Bene."
"Alle cinque verranno a farle visita alcuni della Commissione."
Alterio Giorgio chiese il perché alcuni della Commissione volessero vederlo. La donna disse che non lo sapeva. Andò via col vassoio. La stessa di prima era tornata subito e gli aveva abbassato lo schienale, aggiustato i guanciali e le coperte. Uscendosene aveva detto: "Se deve andare in bagno non ha che da premere il pulsante. Lo accompagneranno in toilette."
Avrebbe voluto almeno una televisione per distrarsi. Pensò che ne avrebbe parlato con quelli della Commissione, dopo aver capito cosa volessero da lui. Alle quindici circa era stato accompagnato alla toilette dove si era anche lavato la faccia e le mani. Era pallido, ma era normale. Aveva superato bene l’intervento. Cercò di guardarsi la nuca dove il chirurgo aveva effettuato le suture. Si vedevano i capelli rasati, i punti di sutura e il rosso della tintura mercuriale. Uscì ed andò in camera senza il bisogno di essere sostenuto anche se un infermiere un uomo questa volta, lo seguiva dappresso. L’infermiere anche lui di pelle bruna, lo aveva aiutato ad entrare in letto e gli aveva aggiustato le coperte.
Disse: "Ha visto che tempo? Sto qui da cinquant’anni e non ho mai visto un tempo schifoso come questo."
"Tutto sommato sulla Terra era meglio, nonostante l’effetto serra."
"Avremo problemi col pane, quest’anno ne sono certo. Nell’altro emisfero, piove poco ed è lì che si produce grano. L’ho letto sui giornali. C’è pericolo che scarseggi il pane, o che aumentino i prezzi."
"Faremo la dieta. Tanto per almeno centocinquanta–centosessanta anni nessuno ci sposta."
"Questo è anche vero."
Lasciato solo, Alterio Giorgio cominciò a ricordare. Ricordi vaghi e confusi affioravano dalle acque scure della coscienza. Pensò: "Mio figlio sulla Terra adesso si avvicina alla quarantina. I suoi capelli diventeranno grigi e poi conoscerà la vecchiaia e la morte."
Divorziato, andava ad aspettare il figlio la domenica mattina davanti al portone dove abitava la madre. Il bambino usciva alle nove e trenta. Allora aveva dieci anni. Appena Alterio Giorgio lo vedeva, tutto si rasserenava. Il bambino guardava prima per terra e poi gli sorrideva con un po’ di vergogna. Lo faceva accomodare in auto, parcheggiata lì vicino e gli comunicava dove sarebbero andati. Glielo comunicava sotto forma di domanda: "Sai dove andiamo stamattina?"
Il bambino vergognoso abbassava lo sguardo. E lui diceva: "Stamattina andiamo dai nonni."
A volte, gli faceva trovare dentro il cruscotto un regalo: una macchina teleguidata, le figurine dei calciatori con relativo album ed altro. Dopo un poco, il bambino cominciava a parlare e non la finiva più per poi addormentarsi quando cominciavano le curve, lungo le colline del Cilento. Alterio Giorgio ricordò appunto di quella domenica quando portò il figlio dai nonni in provincia di Salerno. Forse l’idea non era delle migliori perché faceva freddo e doveva riportare il bambino dalla madre alle 20,00. Considerando che ci volevano circa due ore per arrivare in paese ed altrettante per ritornare a Torre del Greco, restava poco tempo da trascorrere coi nonni. Però c’era di positivo che nel tardo autunno o in inverno c’era scarso traffico, in particolare sulla strada che da Salerno porta a Paestum. Quella mattina, il bambino aveva un cappotto rosso e in testa una cuffia di lana. Alterio Giorgio ricordò che ammirava l’eleganza con cui la madre lo vestiva. Tutto sommato, il figlio era accolto in una buona famiglia. Viveva in una palazzina di tre piani interamente di proprietà del nonno che aveva a pian terreno una fabbrica di coralli. Passava alla ex moglie circa il 50% dello stipendio come da sentenza, ma in cambio viveva a Napoli nella casa di sua proprietà, cui la moglie aveva rinunciato. I ricordi appartengono alla vita che fu. Adesso, suo figlio era solo sulla Terra. Alterio Giorgio era un trapassato-resuscitato e suo figlio rimasto solo a vivere la residua terrena esistenza. L’esistenza pesante come un macigno.
Alle sedici, passarono per la medicazione. Mentre gli disinfettavano la ferita e gl’incerottavano la nuca entrò Elena Nube, più smagliante che mai. Fuoriuscite le infermiere, Elena Nube lo baciò con fervore in bocca. Gli aggiustò meglio cuscino e bordo del lenzuolo. Flessa su di lui, gli aveva sfiorato con la guancia quelle labbra anemiche e il mento col pingue seno. Si era sfilato il cappotto di lana griffata Valentino Ultratombale, abbandonandolo con sensuali movenze alquanto esagerate sulla spalliera del letto, ai piedi del degente. Elena Nube indossava un abito superaderente di chiffon, ricamato color carne. Le linee del corpo e la sua bellezza provocanti come non mai. Alterio Giorgio aveva capito a volo la qualità dei suoi vestiti, la marca e la taglia, persino dei collant, gli stivali di lucida pelle e gli slip merlettati. Conseguenza, o dono della sindrome ultratombale. Tutto sommato, un tipo di sindrome sopportabile per se stesso e per chi lo conosceva e frequentava. Non poteva farci niente. Capiva a volo le marche dei vestiti che uno indossava ed anche il prezzo in euro ultratombali. La vita con le sue gioie gli sorrideva ancora e lo ammaliava. Dopotutto, anche se era un doppione di vita rispetto alla trapassata sulla Terra. Tuttavia, sempre di vita si trattava, ammaliante come non mai in particolare adesso che aveva davanti a sé il corpo perfetto di quella ragazza, pronta quanto prima a far sesso con lui.
Elena Nube gli chiese: "Va tutto bene?"
"Tutto procede bene."
"Appena ho potuto, sono corsa da te. Stamattina, un altro pronto intervento. Una ragazza ha tentato il suicidio cercando d’impiccarsi in soffitta. Per fortuna, ci hanno avvertito in tempo."
"Chi vi ha avvertito?"
"I vicini di casa l’hanno vista salire su in soffitta per una scala esterna, che da un terrazzo porta sopra alla soffitta. Era una trapassata da una ventina di giorni. Un po’ ce l’aspettiamo con tutti i freschi trapassati. Te l’ho detto. Dopo il primo mese, il pericolo di suicidio scema. Dopo i tre mesi, scompare del tutto o quasi. Spesso, sono i nostri agenti che seguono questi tipi di trapassati e ci avvertirono in tempo."
"Io ci pensavo anche sulla Terra in verità. O qui o lì, lo avrei fatto comunque."
"Adesso, sei salvo. Stando alle statistiche è rarissimo che un trapassato messo in salvo contro il tentativo di suicidio, decida di uccidersi ancora."
"Mi hanno detto, forse me lo hai detto anche tu, che non sarei morto subito. Sarei rimasto per oltre un secolo e mezzo a languire nell’oceano glaciale, fino alla sparizione. E’ insensato. Non sapevo che non si può morire annegando. Pensavo che tutto fosse simile alla Terra, o quasi."
"Qui bisogna vivere per centocinquanta–centosessant’anni. Una volta resuscitati qui, questi sono i patti. Solo la Commissione può mandare a morte un trapassato. Ci sono quelli che ci riescono a suicidarsi. Pace all’anima loro. Spesso, noi del pronto intervento li salviamo. A volte, però non c’è niente da fare ed amen!"
"C’è un senso di inadeguatezza. C’è una grande carenza di fondo che più si vive e più l’esistenza diventa insopportabile. E’ come se alla passata vita se ne fosse sovrapposta una seconda; una seconda vita aggiunta alla precedente in modo innaturale. I veri sentimenti erano lì, nella passata vita. Lì, erano i sentimenti autentici di amore ed odio, quelli che emergono lentamente in te, per la prima volta. Quei sentimenti emergenti si trovavano solo nella passata esistenza. Qui è tutto un replay. "
"Che fai? Vuoi suicidarti di nuovo?"
Alterio Giorgio: "Penso di no. Però non si può evitare di pensare a certe cose strane."
Elena Nube: "Per alcuni, vivere è come un obbligo. Se ne potessero fare a meno, volentieri lo farebbero. Parliamo di altro…"
"Alcuni non vogliono vedere l’abisso nel fondo dell’esistenza. Alcuni come te vogliono illudersi di essere felici. Comunque, grazie per ciò che fai per me. Sei come un vero angelo custode."
"Occorre divertirsi, senti a me. Distrarsi. La nuova esistenza dà molte possibilità. Bisogna vedere il lato positivo delle cose. Questa morale era valida sulla Terra ed è valida qui, non trovi?"
Si chinò verso di lui con il seno pendente e gli diede un bacio sulla guancia. Un secondo bacio sulle labbra con lingua fluente a riempirgli la bocca intera."
Erano entrate di nuovo le due infermiere a controllare che tutto fosse a posto. Dopo aver rassettato e messo in ordine le due donne uscirono. Elena Nube era tornata all’attacco. Alterio Giorgio fissava la finestra e non aveva voglia di riposare. Elena Nube, occhi chiari e vogliose labbra, l’osservava da vicino, tutta rossa. Si alzò dalla postazione sopra di lui e chiuse la porta a chiave. Lui la osservò con attenzione. Bruna, alta e tosta, ma che voleva ancora? La donna avvicinandosi al letto disse: "Sei pazzo. Tutti qui sono felici. Sono felici di essere resuscitati e di ritornare a vivere. Tranne per il primo mese di crisi, nessuno si pone i tanti problemi esistenziali come fai tu."
"Non è vero. Molti che conosco ci pensano e come. A volte, ho la sensazione che rivivendo è come se fossi stato cacciato via dal mio passato."
"Devi pensare a vivere. Vivere e godersi questo ben di Dio. Vivere senza molti perché. E’ una seconda chance, lo capisci?"
"La Commissione dice che sono importanti gli atti compiuti sulla Terra."
"Sì, ma è una seconda prova per noi, per la nostra coscienza. Un fallimento è sempre un fallimento."
Gli si era avvicinato sul bordo del letto. Con le cosce premeva la coperta. Osservandolo dall’alto disse: "Toccami, Toccami sotto, toccami dove meglio ti va. Così ti passa lo sconforto."
Alterio Giorgio fu sorpreso. Era bella e ne valeva la pena. Eccome era bella! Forse aveva ragione lei. Aveva ragione lei, dopotutto. Glielo disse: "Pensare in negativo è una stronzata."
Tirò la mano febbricitante da sotto il lenzuolo e gliela fece salire tra le cosce. Stette ferma accanto al bordo del letto come una statua. Una meravigliosa statua con le cosce divaricate come il Colosso di Rodi. Un capolavoro della natura da profanare nella sua profonda sacralità. Lei socchiudeva gli occhi e si passava la lingua su quelle labbra carnose. La mano era risalita fino al pube e tastò le grandi labbra e la fessura tra le grandi labbra. Aveva lo slip merlettato e si poteva tastare la sporgenza della clitoride.
Gli disse come sfida: "Allora ti piace?"
Lui continuava ad esplorare.
Glielo chiese ancora: "Ti piace?"
"Tu sei bella."
"Allora cosa ne pensi? Ne vale la pena?"
"Sei fidanzata?"
"Sì, ma tu mi tocchi meglio. Hai dita di artista."
Da sotto lo slip, la sua mano era entrata nel viluppo dei peli vulvari e si allungava nel cunicolo lubrificato della vagina. Prese ad esplorarle l’altra cavità imbutiforme tra le pacche del culo. Tutto in lei si arrendeva. Tutto in lei sbolliva nel forte calore del sesso. Dava e chiedeva sesso. Di botto si era allontanata, lasciandolo con il braccio peloso pendulo e le dita che l’avevano frugata dentro bagnate di vaginali secrezioni. Cercando di specchiarsi ai vetri della finestra, disse: "Comunque sono libera. Non ho nessuno, se t’interessa."
"Buona notizia, anzi, ottima notizia. Non ci speravo molto. Il tuo cuore è dunque libero."
Dopo un momento di riflessione, Alterio Giorgio volle precisare: "Anche il peccato dopotutto è bello. Si può sbagliare e correggersi anche qui. Una seconda vita senza errori non ha il sapore giusto della vita."
Gli si era seduta affianco, sulla sponda del letto.
Disse: "Il mio fidanzato è scomparso una ventina di giorni fa. Eravamo al cinema e vedevamo un film. A metà del primo tempo mi sento stringere al braccio dalla sua mano. Nel semibuio, l’osservo riuscendo a vedere la sua faccia disperata. Me lo aspettavo. Sapevo che da un momento all’altro sarebbe sparito. Prossima era la scadenza dei centocinquanta, centosessant’anni. Cercavamo d’ignorare l’indelebile limite."
"Hai strillato e messo sotto sopra il locale ed interrotto la proiezione del film…"
"No, sono stata zitta. Tanto, non c’era nulla da fare. Negli ultimi tempi, non ero tanto innamorata di lui ed a volte la sua presenza m’irritava. Capita…"
"Caspita."
"Il film era pieno di suspense. Dovevo vedere come finiva il film. Della sparizione del mio ex se ne sono accorti quelli della Commissione, quando si sono resi conto che non andava allo sportello a ritirare l’assegno mensile."
Uscendosene e ridendo gli disse: "Ragazzo, pensa alle dolcezze."
"Quando ritorni?"
"Quando potrò. Comunque, ti telefono. Ho molto da fare in questi giorni. Ciao."
Chiudendo la porta gli spedì un bacio col medio e l’indice. Aveva ragione lei. Era da stupidi rinunciare ad una seconda esistenza, ad altri amori, illusioni, al sesso oltre alle dovute filosofiche riflessioni sulla vita e sulla morte. Rinunciare alla luce del giorno ed al notturno riposo. Rinunciare a fare l’amore con una bella donna come Elena Nube. Lei lo aveva salvato e voleva continuare l’opera di salvataggio esistenziale: trasformarlo nel profondo, salvandolo ancora una volta da se stesso. Dargli sesso a volontà, resuscitarlo grazie alle dolcezze di Eros.
Alle quindici come previsto, arrivò un solo uomo sempre di media età che era un membro della Commissione, per la precisione un dirigente superiore. L’uomo aveva un cappotto nero 100% lana, marca Giorgio Armani, prezzo 450 euro ultratombali. Al collo, portava una sciarpa azzurra di lana pellettata, stessa marca del cappotto e prezzo di 60 euro, sempre dell’ultratombalità. In testa, un cappello in lana tipo Sherlock Holmes ed il bavero del cappotto rialzato. Entrato, salutò il degente e si tolse il cappello. Alterio Giorgio lo squadrò e rispose al saluto. L’uomo corpulento, disse: "Permette?"
Senza ascoltare risposta, prese la sedia accanto al letto e si sedette non prima di aver sbottonato il pesante cappotto ed essersi tolto la sciarpa Da sotto, si vedeva un elegante doppio petto di lana gessata, United Colors of Benetton, 210 euro ultratombali con camicia di cotone con colletto a contrasto, INGRAM, 75 euro ultrat. e cravatta di seta stampata, ALLEGRI, euro 60, ultrat. Per quanto poté, Alterio Giorgio rimase colpito da quell’eleganza. Erano vestiti nuovi di zecca e non abusati e sdruciti. Doveva essere uno che guadagnava bene, questo pensò. Del resto, era logico. Se non guadagnava bene uno della Commissione, chi altro se no? Con pacato tono, quello disse: "Mi chiamo Arturo Graffio e sono un dirigente superiore."
Aveva porto la mano ad Alterio Giorgio che l’aveva stretta in segno di saluto. Gli aveva detto: "Allora, va tutto bene? Lei e’ stato medico sulla Terra e un grande ricercatore, chi meglio di lei sa se sta guarendo in fretta, oppure ci sono problemi."
"Ieri avevo un po’ di febbre, adesso sembra che non ne abbia più."
"Il dott. Botte ha dichiarato che lei sarà guarito del tutto tra quattro, al massimo cinque giorni. Oggi è martedì. Allora, ci vediamo sabato prossimo. Le farò visitare il Centro dove lavorerà. Dovrebbe però firmare l’assenso. Ce la fa a firmare?"
"Mi fa male la spalla; però non ho problemi nel giustapporre una firma su un documento. Ma ho scelta?"
"Penso più no che sì. Lei è nuovo qui e non ha ancora del tutto capito come gira il mondo qui. Le consiglio di firmare."
L’uomo gli aveva porto un foglio da sopra una base di cartone rigida. Gli aveva porto la stilografica d’oro Caran d’Ache of Switzerland Ivanoe, di ben 350 euro ultratombali.
Con una smorfia per il dolore a spalla e collo, Alterio Giorgio aveva firmato. Arturo Graffio aveva messo in borsa il documento. Guardandosi attorno, aveva notato il quadro astratto di fronte al letto del degente.
Disse: "Che brutti quadri. Riproduzioni di pittura astratta terrestre. Rimandano ad oscure logiche, rimandano a calcoli algoritmici nulli. Hanno sbagliato a far appendere quadri simili, in particolare negli ospedali."
Aprì la porta e fece entrare due individui che stavano davanti all’uscio.
Disse: "Andate all’anticaglia di fronte all’ospedale e comprate due quadri: uno di Caravaggio ed uno di Rembrandt."
I due uscirono. Arturo Graffio asportò il brutto quadro e lo diede ad uno dei due dicendo: "Buttatelo. Schifezza!"
Alterio Giorgio chiese ad Arturo Graffio: "Ha parlato di riproduzioni di Rembrandt e di Caravaggio, come noi siamo riproduzioni di quelli esistiti sulla Terra, vero?"
"Vedo che comincia a capire. Non possiamo comprare gli originali di Rembrandt e di Caravaggio. Amo da morire, morire per modo di dire, Rembrandt e Caravaggio."
"Mi dica una cosa. Ho dei poster della mia fidanzata sparita l’altro ieri sera durante una festa di nozze. Ebbene, la mia amica era leggermente strabica verso destra. Invece nel poster che la ritrae mentre sparisce, è strabica verso sinistra."
"Ci sono varie teorie al proposito. Secondo alcuni, nel momento in cui scompariamo entriamo inavvertitamente in una nuova dimensione dello spazio-tempo dove c’è una rotazione di 180° gradi. Secondo alcuni il vero substrato dell’esistenza e di tutto il mondo è un cunicolo spazio temporale che dopo un certo tratto cambia direzione di 180° appunto. Questo si verificava di tanto in tanto anche sulla Terra. Tiene presente il fenomeno del Doppelgänger? Il doppio? Pare che Goethe, lo scrittore tedesco dell’Ottocento, cavalcando in campagna avesse visto uno su un cavallo identico al suo venirgli incontro. A breve distanza, si accorse che quell’uomo era se stesso. Goethe ebbe l’impressione di stare davanti ad invisibile specchio. Anche altri ebbero visioni analoghe. C’è una casistica in tal senso. Lo spazio-tempo non è unidirezionale ed a volte curva anche di 360 gradi. A volte, si avvita a spirale ed a volte sembra tornare indietro come un fiume che segue il suo corso, sia pur serpiginoso, fino allo sbocco al mare."
"Questo sbocco potrebbe portare nell’oceano infinito del Nulla, oppure in quello pieno di luce di Dio."
"Lei sembra più un filosofo che uno scienziato. Però, è normale. Lo siamo tutti filosofi in cerca del perché profondo della nostra resurrezione, come sulla Terra inseguivamo i perché profondi dell’esistenza."
Alterio Giorgio: "Sono d’accordo con lei. I dubbi sono tanti. Anche sulla Terra ero sempre pensieroso. Anche sulla Terra notai delle strane asimmetrie. Le pitture rupestri risalenti al Neolitico erano sinistrorse, nel senso che raffiguravano animali della selvaggina con la testa rivolta verso il lato sinistro se l’entrata della grotta coi dipinti stava spostata verso destra. Cioè entrando in grotta, per raggiungere i dipinti bisognava svoltare verso la sinistra. I dipinti in fondo alla grotta avevano tutti questo strano particolare: le teste degli animali rappresentati erano tutte rivolte a sinistra. Viceversa, se l’entrata della grotta era a sinistra. Se poi c’erano più entrate in grotta sia da destra che da sinistra rispetto ai dipinti rupestri, allora accadeva che erano raffigurati branchi d’animali con diversa disposizione spaziale. Quest’asimmetria spaziale si trovava nella mente dell’artista. Però, essendo una caratteristica costante a molti artisti del Neolitico vissuti in tempi e luoghi diversi, doveva dipendere da una soggiacente asimmetria della psiche umana. Capisce?"
Arturo Graffio: "Molti pensano che esistano due realtà. Quella sulla Terra e questa. Sono due realtà speculari ed opposte."
Alterio Giorgio: "Qui saremmo in un mondo destrorso e quelli sulla Terra stanno in un mondo sinistrorso."
"Esatto."
"Alcuni scienziati sulla Terra lo avevano sospettato osservando la stragrande maggioranza della molecole organiche, quasi tutte levogire."
Arturo Graffio: "Capirà molte cose quando le mostrerò il Centro dove lavorerà."
"A proposito, quante ore al giorno devo lavorare? E… quale sarà lo stipendio?"
"Lavorerà per un minimo di quattro ore al giorno, sabato e domenica esclusi. Però, se vorrà trattenersi di più potrà farlo. Lei è soggetto ad un contratto di lavoro simile a quello dei professori universitari, sulla Terra. Tutto sommato farà un lavoro analogo."
"Sulla Terra però, potevamo assentarci anche per una settimana. Oppure, di più se dovevamo recarci all’estero."
"Nei primi tre anni, dovrà rispettare l’orario settimanale di quattro ore al giorno come le ho detto. Dopo, sarà molto più libero. Dopo tre anni infatti scatterebbe un avanzamento di carriera."
"Quale è l’ammontare degli emolumenti?"
"Partirà con uno stipendio iniziale di oltre tremila euro. Dopo tre anni avrà un sostanzioso scatto di carriera, a condizione che se lo meriti e un notevole incremento di stipendio. Appena prenderà servizio, le daranno le tabelle stipendiali con tutte le voci e le indennità."
Erano entrati i due di guardia, ciascuno con un quadro sotto il braccio. Arturo graffio disse "Inchiodateli sulla parete di fronte al letto, così almeno il nostro degente si distrarrà. Dottore, dove vuole il Rembrandt a destra o a sinistra del Caravaggio?"
"Faccia lei."
Appesi i quadri, i due erano ritornati alle loro postazioni, davanti alla porta. Arturo Graffio prima di andare via, aveva detto: "Sono due pittori che amo. Sono quadri ultratombali, ma come se fossero originali. Con Caravaggio e Rembrandt, la luce è radente, impietosa e violenta. Quanto più c’è oscurità tanto più la luce acquista forza."
"In Caravaggio, la luce sembra scavi nei corpi, ma non riesce a penetrare in profondità. In Rembrandt invece è diverso. In Rembrandt, la luce nasce dal di dentro."
"Entrambi pittori della luce, appunto."
I due quadri erano la Vocazione di San Matteo di Caravaggio e la Lezione di anatomia del dott. Tulp di Rembrandt. Alterio Giorgio pensò che erano quadri macabri. Disse: "Dottore, non potrei usufruire anche di un piccolo televisore?"
"Darò disposizioni che entro stasera le portino un televisore da camera. Adesso, pensi a riposare e a guarire."
"Grazie."
Questi due quadri sono stupendi, meravigliosi, ammirevoli. Sono mirabilia, citando un po’ il latino. Mirabilia sunt. Secondo me fanno capire molte cose, non solo di quelle sulla Terra, ma anche di qua, in questa novella esistenza. Forse i due artisti avevano intuito che c’erano due o più mondi."
Si salutarono con la solita stretta di mano. Arturo Graffio uscendo disse: "Allora ci vediamo sabato pomeriggio verso le 14,00. Au revoir."
Alterio Giorgio fissò per poco i due quadri in bella mostra, oltre la spalliera del letto. Allungò lo sguardo oltre i vetri della finestra per vedere se il tempo migliorasse, ma al grigiore si era sovrapposto una debole, diffusa oscurità. Avvertiva nell’aria ancora il profumo fiori di bosco di Elena Nube e ricordava le sue calde intimità assaporate coi polpastrelli delle dita. Aveva appena raccolto il sentore dell’erotismo illimitato di Elena Nube. Sul suo erotismo si avvitava la sua vita resuscitata. Pensò a tante cose. Pensò a Carmela, precipitata in remoti anfratti dello spazio- tempo; pensò a quando era stato vivo sulla Terra. Pensò al figlio, ai propri genitori. Osservò come in un incubo di nuovo i due quadri, poi la giostra di visioni e ricordi fu un vortice che lo attirò nel sonno oscuro e profondo. Ebbe un sussulto per una fitta al collo e poi ebbe una visione ad occhi aperti. Nello spazio tra spalliera del letto e i due quadri, per pochi attimi Carmela che lo fissava muta da dietro una spessa lastra da cui non poteva uscire. Lo sguardo triste e rassegnato. La voce spenta e la pelle di una morta. Chiuse gli occhi; li riaprì e lei non c’era più. Lo stress gli aveva causato quel tipo di visione. Forse una transitoria e breve anossia cerebrale.
I giorni seguenti furono di routine: medicazioni, somministrazione di antibiotici, visita del dott. Botte, alimentazione con vitamine, minerali e... ricordi. Indelebili ricordi. I suoi genitori entrambi sepolti in un paesino del sud Italia. Morti da una diecina d’anni. Adesso, erano solo un cumulo di ossa. Ossame. Il suo cadavere posto da pochi mesi nella cripta di famiglia, adesso si stava disfacendo in tetri liquami. Ecco ciò che oltrepassava remoti mondi: la parola adesso. Adesso indica il presente. L’attimo sfuggente del presente. Il presente che in realtà non esiste. Il presente è nella nostra mente e può attraversare infiniti spazi. Adesso: l’astro che dista dieci miliardi di anni ha completato la sua rotazione intorno al proprio asse. Adesso: il pianeta lontano miliardi di anni luce entra nell’equinozio di autunno. Adesso: sulla Terra dovrebbero essere tra le tre e le quattro del pomeriggio e mio figlio fare lo straordinario al lavoro. Adesso Cesare – siamo alla Idi di marzo del 44 a. Cr. – sta per entrare in Senato dove sarà ucciso. Adesso: Elena – narra Omero – bacia Patroclo.
Adesso
: particella temporale legata al presente che non esiste e perciò priva di tempo e... di spazio. La parola Adesso equivale al termine che indica il Nulla. Adesso ci dice che chi ci è caro nonostante tutto, ci è vicino. L’Adesso: illusione della mente. Nel momento in cui la si pensa, è già passata. Adesso: parola falsa che ci aiuta ad illuderci e ci fa credere ch’esista il presente. Aiuta a farci credere che il tempo a volte non voli in fretta. Aiuta ad evitare l’irrazionalità del reale. Oppure, ci aiuta ad esprimere ciò che non esiste. Il termine adesso ci aiuta ad occultare il Nulla. Disse con le lacrime agli occhi: ecco cosa resta. Adesso esistono solo radi ricordi. Nulla torna indietro. Mai più rivedrò mia madre e mio padre per quanto lunga mi sia questa seconda esistenza. Nulla mi porterà a Carmela. Partiti per infiniti viaggi. E mio figlio... adesso è solo sulla Terra. Forse, di tanto in tanto pensa a me con rimpianto. La coscienza è fatta di rimpianto. Anche se non sembra, tutto passa. Siamo fatti per andare via. Via da se stessi, dal mondo, dai figli, dai padri per entrare in fredde coltri di buio eterno. Nulla possiamo contro forze che ci sovrastano. Solo possiamo cercare di capire. Spasmodiche computazioni cerebrali tese alla comprensione del reale.
Alterio Giorgio volle ricordare alcune ipotesi scientifiche terrestri. Sulla Terra dalla quale la vita resuscitata di Alterio Giorgio derivava, alcuni ricercatori avevano messo in dubbio l’effettiva esistenza del Tempo fisico, ritenendolo una pura convenzione del cervello umano come lo era la moneta corrente, utile per scambi economici. Alla stessa stregua dell’utilizzo del denaro in economia per scambi di beni e valori, così il concetto di tempo fisico avrebbe una importanza pratica, finalizzata all’espletamento rapido dei calcoli matematici. L’effettiva assenza del Tempo fisico implicherebbe l’esistenza di soli rapporti dinamici tra gli oggetti del mondo esterno e tra i vari organi del corpo. Nelle diverse aree della materia cerebrale avverrebbero esclusivamente rapporti di ordine dinamico. La parola adesso sarebbe un termine di comparazione dinamica, non fermerebbe il Tempo che in realtà non esiste. Adesso che Giulio esce di casa, Marisa innaffia i fiori. Solo comparazioni dinamiche tra i numerosi eventi del mondo circostante.
Il giorno prima che fosse dimesso venne a fargli visita Monaco Vincenzo, il dandy anni Trenta (del Novecento): orologio al polso marca Breguet Classique 5197, 38 mm di spessore, peso 87 grammi e prezzo di 1930 euro ultrat. Addosso, un cappotto bianco monopetto con modellistica da dandy in Techno Cotton mix, caldo senza imbottitura. Baveri impuntati – fungono da sottogola - del cappotto molto larghi richiudibili con bottone. Tasca sagomata con cucitura a punto sella ribattuto, bottone in corno e fodera porta tutto. Sotto il cappotto, ecco spuntare l’eleganza raffinata: smoking di lana da 250 euro, camicia di cotone plissettato, 160 euro, tutto Bottega Veneta Ultratombale (BUT); scarpe di pelle Prada, 370 euro. Inoltre: cintura di cuoio ORCIANI, 200 euro. Naturalmente, sono euro ultratombali. Avendo capito che Alterio Giorgio lo squadrava, Monaco Vincenzo aveva detto per puntualizzare: "Bastano un buon impermeabile ed un paio di scarpe come si deve per essere chic."
Gli aveva portato anche il vestito da indossare quando sarebbe stato dimesso dall’ospedale. Monaco Vincenzo lo salutò e si sedette sulla sedia, accanto al letto. Disse: "Domani caro amico, uscirai da qui. Siccome verrà a prelevarti un alto funzionario della Commissione, ho pensato di portarti un vestito adatto alla circostanza. L’ho preso dal mio guardaroba. L’impermeabile è nero, ti piace il nero? E’ a doppiopetto in batavia di cotone; abito a quadri principe di Galles monopetto a tre bottoni, camicia a righe Carfrel e cravatta di maglia, scarpe nere stringate di cuoio, marca Fratelli Rossetti ed ombrello tartan.
"Allora ti dico il prezzo di mercato, dimmi se sbaglio: il completo costa euro ultratombali 400, le scarpe 180 e l’impermeabile 600."
"Centesimo in più, centesimo in meno. Colpa della Sindrome se indovini. Amico mio, ti vorrei dare un consiglio. Con quella gente non fare troppe domande indiscrete. Tieniti sulla difensiva e non avanzare pretese."
"Questo l’ho capito. Hanno loro il coltello dalla parte del manico. E’ sempre stato così."
"Vuoi dire anche sulla Terra?"
"Appunto."
"Queste cose dille solo a me. Lo sai che con quella gente, o la va o la spacca. Se tutto ti andrà per il verso giusto, dovresti fare un’ottima carriera. Loro devono fidarsi di te. Però non ti capisco, forse perché novizio. Puoi vivere una nuova vita di un secolo e mezzo e passa e ti lamenti. Io sono felice. Non invecchio, sono giovanile, vesto come mi pare e faccio quello che voglio, senza lavorare e questo per un tempo vitale che paragonato a quello trascorso sulla Terra si può dire che sia il doppio. Qui non s’invecchia! Che vuoi di più."
"Però anche qui, in questa seconda esistenza, quanti misteri."
"I misteri stanno dovunque."
"Tu mi consigli di pensare ad altro, vero?"
Monaco Vincenzo dava per assodato la risposta. Disse solo: "Beh, allora buona fortuna e fammi sapere com’è andata. Cioè se ti rivedrò, o ti sentirò per telefono allora è andata bene…"
"Se non mi vedrai più o non mi sentirai più, vuol dire che mi hanno fatto fuori, preferendo un altro al posto mio."
"Amico mio, auguri. Tutto quello che potevo fare per te, l’ho fatto. Se hai bisogno di qualcosa fammelo sapere. Ciao."
Monaco Vincenzo aveva chiuso delicatamente la porta dietro di sé. Alterio Giorgio osservò gli abiti sullo schienale della sedia, in bilico visto l’ammasso di stoffa. D’un tratto senza un vero perché, si ricordò di quelle chiazze di sole sui palazzi della sua città, da vivo sulla Terra. Chiazze di sole pallido, ramato, splendente sulle vetrate dei piani più alti. Dolce malinconia andante. Malinconica tristezza sulle secche foglie di quei platani ai bordi della strada dove si passeggiava il sabato pomeriggio e quel bar dov’entrava con la moglie ed il figlio piccolo, portato per mano. Lui e la moglie prendevano caffè espresso con un sorso di acqua minerale per farsi la bocca prima. Al bambino, compravano un piccolo uovo di cioccolata. Quel pallido sole d’autunno esitante a lasciare la Terra. Questo prima del divorzio. Quel pallido sole, avvolto nei vapori del cielo. Pallido sole esitante nei giorni andati. Giorni remoti, presenti in vaghi ricordi. Alterio Giorgio pensò che c’è un tempo infinito e che lui fosse un infimo granello di polvere, vagante per chissà dove. Ritornava in lui la depressione. L’esistenza cominciava a pesargli come non mai. Esistere con tanti ricordi addosso è problematico. A volte, ricordare sarebbe stato bello. Ma adesso, sapeva che non poteva arrendersi. Non aveva più chance. Chiamò l’infermiera perché provvedesse a disporre gl’indumenti in un armadio. Il telefonino che teneva nel tiretto del comodino di lato al letto squillò: "Ciao, come stai?"
Era lei. La sua dolce voce lo scosse. Elena Nube. Anche il suo cuore si scosse a nuove emozioni. La cercò cogli occhi. Ne vide l’aspetto. I suoi occhi, il suo sorriso, il suo calore, il suo sesso.
"Ciao, quando vieni a trovarmi? Tra qualche giorno uscirò da qui."
"Molti suicidi in questi giorni, manco a farlo apposta. Ne abbiamo salvati una parte, ma spesso non si arriva in tempo. Ti telefonerò, appena potrò. Non vedo l’ora di rivederti, ma non posso. Le leggi sono ferree. Ti chiamerò, amore mio."
"Ciao, amore. Ti amo. Ho bisogno di te."
"Anch’io non vedo l’ora di starti vicino, ma i capi mi obbligano a stare lontano da te. Appena potrò, prenderò dei giorni di licenza. Ti amo moltissimo."
La mattina che fu dimesso, ringraziò il dottore Botte dicendogli: "Professore, lei è un grande medico. Siamo colleghi dopotutto e sono certo di quello che affermo. Lei è serio nel suo lavoro."
"Ci sono ferite più profonde che non si vedono. E’ da quelle che bisogna guarire."
Alterio Giorgio stava per piangere e dal letto diede la mano al dottore Botte. Alterio Giorgio volle abbracciare anche le due infermiere more e si commosse di nuovo. Mangiò alla mensa dell’ospedale ed aspettò che arrivasse il dottore Arturo Graffio a prelevarlo. Si era vestito intanto con eleganza, avendo dismesso il pigiama che teneva in ospedale. Adesso, era di nuovo normale tranne la rasatura con cicatrice nucale che però con la crescita dei capelli tendeva a scomparire. Impermeabile nero doppiopetto in batavia di cotone, abito a quadri principe di Galles, monopetto a tre bottoni, camicia a righe Carfrel e cravatta di maglia, scarpe nere stringate di cuoio, marca Fratelli Rossetti ed ombrello tartan a quadretti rossi e neri. Per il momento, gli avevano consigliato di evitare i cappelli. Per due o tre giorni, niente cappelli. Poteva ripararsi dal vento, sollevando il bavero del cappotto e con una buona sciarpa. Però il cranio non poteva stare riparato a lungo da un cappello che non permetteva la circolazione dell’aria ed avrebbe predisposto la ferita alle infezioni ed alle muffe.
In tarda mattinata, il dottor Arturo Graffio era arrivato con la sua Maserati metallizzata color sanguigna. Erano discesi uno dietro l’altro nel viale e saliti subito in macchina. Una volta tanto, il tempo sembrava volgere al meglio. Le nubi si diradavano e tra gli squarci, entrava prepotente l’azzurro luminoso. Alterio Giorgio si era girato. Sperò di rivedere Elena Nube che gli faceva una bella sorpresa, ma non la vide. Arturo Graffio messo in moto disse: "Andiamo verso il sud. Tre ore appena di macchina a velocità un po’ spedita, via autostrada."
Nei pressi di Piazza Piccola, c’erano dei palchi ed una grossa folla di gente. Nonostante il vento freddo, c’era mota gente. Arturo graffio disse: "Temo che dovremo fare un giro. Però non è tardi e possiamo attendere. Le va di assistere ad una esecuzione capitale?"
"Di quale esecuzione parla?"
"Non ha letto i giornali? E’ sulle prima pagine. Forse la degenza in ospedale... Ma non ha visto neanche la tivù?"
"Seguo i tg dalla Terra. Qui non succede mai niente di grave. Ho mio figlio sulla Terra e m’interessa l’evolversi della difficile situazione socio-economica sul pianeta da cui deriviamo."
"C’è l’esecuzione capitale di un giovane dissidente. Uno che voleva eliminare la Commissione. Un estremista. La Commissione è molto severa verso gli estremisti. Qui la politica come intesa sulla Terra è assurda. Assurdo parlare di rivoluzione. Allora ci fermiamo un po’? Lei può anche uscire dall’auto per vedere meglio. Da qui dentro però la visuale non è male."
L’auto sostava ai bordi del corso, in uno slargo, una diecina di metri prima di Piazza Piccola, al cui centro era stato allestito il palco per l’esecuzione. La strada molto larga, era un po’ in discesa, offrendo una buona visuale ad Artura Graffio, seduto al posto di guida.
Arturo Graffio disse: "Il carro col condannato arriverà a minuti e ci passerà accanto."
"Per me, non c’è fretta. Possiamo aspettare."
Alterio Giorgio volle uscire dall’abitacolo e respirare aria pura, visto che quello fumava molto. L’aria era limpida e il cielo aperto si lasciava riscaldare dal pallido sole. Cumuli di neve frolla accumulati da quelli della nettezza urbana lungo i marciapiedi.
Dalle finestre e dai terrazzi piovevano gli euro di metallo nelle cassette dei questuanti, incaricati di raccogliere offerte per riscatto della memoria del condannato a morte. Soldi che sarebbero stati versati su un conto corrente della Commissione, incaricata di redigere un nuovo curriculum del condannato. Alle ore undici del mattino, il condannato a morte Corrado Falco stava attraversando il corso per essere alla fine afforcato nella Piazza Piccola, sull’imbrecciata di san Francesco, fuori Porta Orientale. Quello era il posto per l’esecuzione delle pene capitali. Dal mattino presto, la gente della periferia aveva assiepato la piazza intorno alle forche, erette la notte tra il ventuno e ventidue di marzo. Uno squadrone di dragoni a cavallo era stato schierato in piazza di fronte e a lato del patibolo con la funzione di scorta a sua maestà il Presidente della Commissione ed alle eccellenze governative. Si temeva che gli assembramenti di popolo potessero essere scintilla di rivolta.
Nonostante il freddo, gli spettatori continuavano ad affluire dalle quattro strade del Cavalcatore, oltre che dalla via di San Giovanni, dallo spiazzo di Porta Vecchia, da Sant’Elena, dalla Carriera grande e dalla lunga arteria che attraversava i Tribunali, congiungendo Piazza grande con Piazza Piccola. Tra il pubblico c’erano molte donne incappottate ed incappucciate, accompagnate dai mariti e dai fidanzati. Non c’erano bambini, come ovvio. La piazza si gremiva di teste coperte da cappelli e da cuffie. La fila dei dragoni a cavallo faceva rispettare il limite invalicabile. Il rullo di tamburi annunziò l’arrivo del condannato. Ci fu un gran vocio e molti allungarono il collo per vedere. Pochi minuti dopo le undici antimeridiane, era apparso in piazza il drappello della polizia a precedere il carro con il condannato, le mani legate alla schiena.
La condanna di terzo grado prevedeva che Corrado Falco stesse scalzo, indossasse calzoni neri e portasse al petto il cartello con la scritta: EMPIO. C’era un assistente sociale sul carro ad assistere il condannato. Il carnefice seguiva il carro e teneva una fune con il cappio intorno al collo di Ciccio. Un secondo drappello di soldati chiudeva il lugubre corteo.
Il carro del condannato passò vicino la macchina in sosta di Arturo graffio il quale allungò il collo verso Alterio Giorgio e disse: "Il condannato dev’essere prima impiccato e poi subire la decapitazione con la mannaia. Questo per fare in modo che muoia per sempre, per davvero. La testa dev’essere staccata dal corpo, mi capisce?"
Alterio Giorgio fece cenno di sì. Disse: "Mi sembra una faccia conosciuta."
"L’hanno catturato gli sbirri durante la festa di un addio al celibato alcuni giorni fa."
"Allora l’ho visto. Per questo lo conosco. E’ stato quando è scomparsa la mia compagna."
"Ho capito. E’ stato quando lei ha tentato il suicidio."
"Giusto."
Alterio Giorgio osservò la livida faccia del condannato con la testa rapata a zero. L’espressione era di angoscia e stupore. Un mondo assurdo lo condannava ed assisteva muto al suo supplizio. Pensava di essere innocente. Alla gente importava lo spettacolo della sua agonia e della sua morte.
Il carnefice prese in consegna il condannato a morte. Corrado Falco volle dire ad alta voce: "Popolo del nuovo mondo, io muoio innocente."
La folla era muta. Si vedeva che alcuni assistevano con raccapriccio alla scena e qualche donna si asciugò le lacrime. Corrado Falco era caduto in ginocchio come un sacco, recalcitrante ad alzarsi. I più gridarono ed inveirono contro il carnefice che lo stava trascinando con forza e gli tirava la fune col cappio intorno al collo, come una bestia.
Il boia fu costretto a sollevarlo e a trascinarlo di peso al patibolo. I tamburi tacquero e l’uomo rimase appeso col cappio al collo. Aveva aperto la bocca e dimenato i piedi. Subito aveva perso ogni forza. Il magistrato di giustizia fece cenno al boia di mettere giù il cadavere. Adesso, bisognava adagiare la testa del condannato su un cilindro di legno in modo che il boia gli tagliasse la testa con un colpo secco d’ascia. Alterio Giorgio stava per vomitare. Disse ad Arturo graffio: "Possiamo andare adesso?"
Arturo Graffio fu d’accordo. Mise in moto, girò la macchina per la parte opposta e tagliò per una via collaterale. Lo lasciarono passare perché sul cruscotto l’auto portava il distintivo della Commissione.
Arturo Graffio disse: "L’anno scorso un affocato era rimasto per dodici ore appeso al cappio. Non voleva morire. La legge dice che quando gli tagliano la testa, il condannato dev’essere prima morto, tramite impiccagione. Che ne pensa?"
All’interpellanza di Arturo Graffio volle rispondere mantenendosi nel vago: "Credo che non si vincano le guerre con l’odio o sbattendo i pugni contro le sventure. Credo di più nell’accettazione degli eventi, nella tolleranza. In questa seconda vita non vedo grandi ingiustizie, avversità... Non ci sono guerre... perché odiare? Penso che in ultima analisi, la felicità è una scelta, è lo stato d’animo con cui guardiamo alla vita."
Arturo Graffio rispose con una parola che era una specie di timbro su un documento pubblico.
Disse: "Vero."
Verso la periferia, prima di immettersi in autostrada Alterio Giorgio osservò il grande super mercato CIBA che sembrava una cittadina. Il viale per il parcheggio esteso a dismisura: poteva contenere tutte le macchine della città. I capannoni altrettanto ampi.
Arturo Graffio spiegò: "Lei non è stato in quel supermercato? Vi si trova tutto."
"Non ho ancora la macchina."
"Ma sulla Terra mi risulta che lei era patentato."
"Sì, ero studente all’università quando presi patente."
"Allora deve solo comprarsi una macchina, se vuole. Comunque, il supermercato è ben raggiungibile anche col metrò."
"Anche qui grossi giri di affari."
"Con la differenza che la mole dei soldi e degli affari è sotto il controllo della Commissione. Sulla Terra invece, si sono formate oligarchie economiche impermeabili al potere statale. Un caos che qui non esiste. Un caos che adesso è in grave crisi. Ha sentito della crisi economica che attanaglia la Terra? Meglio qui, mi creda. Sulla Terra, sono crollate le borse. Non si scherza. C’è pericolo di una nuova guerra mondiale. Finisce sempre così sulla Terra. Qui siamo in pochi e l’economia tira."
"Sono preoccupato per mio figlio. Adesso ha oltrepassato i quarant’anni. Io non posso aiutarlo…"
"Non ci pensi... le cose vanno così. Suo figlio come anche i miei parenti non dovrebbero avere molti problemi. Che si crede che solo lei ha figli vivi sulla Terra? Purtroppo la Commissione comanda solo qui."
"Mi spieghi che lavoro devo fare, per favore."
Nel frattempo, si erano immessi in autostrada a tre corsie e la macchina andava con speditezza, dovendo recuperare il tempo perso in città per via dell’esecuzione capitale. Alterio Giorgio disse: "Sembrano autostrade terrestri. Stessa segnaletica, stesse marche delle macchine, autogrill, benzina senza piombo... solo che qui le autostrade sono gratis e la benzina costa poco."
"Sono vantaggi che un uomo sulla Terra si sogna. Una cosa è certa. Siamo dei fortunati ad aver avuto l’opportunità di ritornare a vivere... a vivere su un pianeta come questo che offre molti vantaggi e pochi problemi, superabili con la buona volontà. Le sembra?"
"Sì, questo pianeta offre innumerevoli vantaggi."
Arturo Graffio: "Conosce Thomas Reid? Fu uno scienziato. Nel 1775 Thomas Reid, uno dei più autorevoli esponenti della filosofia scozzese, scrisse all’insigne e famoso giudice lord Kames: Sarei lieto di conoscere l’opinione di Vostro Onore sul seguente fatto: qualora il mio cervello perdesse la sua struttura originale e qualora alcune centinaia di anni più tardi, gli stessi materiali venissero messi insieme in maniera così curiosa da diventare un essere intelligente, questo essere sarebbe "me"? E ancora, qualora si formassero a partire dal mio cervello due o tre di tali esseri, sarebbero tutti "me", e di conseguenza un unico essere intelligente?"
Alterio Giorgio: "Perché mi parla dei dubbi di questo scienziato?"
"Perché il Centro dove la sto portando si occupa proprio di questo. Anche lei quando è arrivato qui, quando è resuscitato, è passato per il Centro."
"E’ questo Centro che regolarizza le entrate su questo pianeta? E’ il Centro che decide chi resuscitare?"
"Prima non era così. Prima era la Cosa che faceva tutto. Da una diecina di anni, illustri scienziati nominati dalla Commissione sono riusciti a dominare l’attività della Cosa. Adesso, siamo noi che la guidiamo. Adesso, la Cosa agisce con più razionalità. Adesso, gli scienziati del Centro ricevono istruzione direttamente dagli Alti commissari. Tra questi commissari ci sono io. Siamo noi che passiamo gli elenchi della gente da resuscitare. Prima, le resurrezioni avvenivano a caso ed erano regolate dalla Cosa."
"Cosa è questa Cosa?"
"Ciò che le rivelo è segreto di Stato."
"Segreto. Quindi ne va della mia vita – questa mia seconda vita – se rivelassi questi segreti."
"Certo. Sono cose di vita, o di morte."
"Si fidi. Non è nella mia natura parlarne ad altri."
"Molti la chiamano così, non sapendola definire. Appena vedrà capirà. Tutto ciò che sto dicendo comunque è sotto segreto. Lei rischia molto, se rivela ciò ad altri. Molti tra i quali io pensano che sia una strana forma di DNA gigantesco. E’ probabile che questa macro molecola gigantesca non si trovi in questo universo, ma appaia qui pur restando in una dimensione spazio temporale parallela. Alcuni dicono che la Molecola o la Cosa o DNA gigantesco, risponda all’equazione di Scrhödinger, per cui è contemporaneamente presente ed assente. Dipende dai punti di vista."
"Come si è formata?"
"Questa macromolecola avrebbe avuto una origine analoga alle prime molecole di DNA formatesi sulla Terra primordiale. Siccome non ne sappiamo molto di come si siano formate sulla Terra le prime molecole di DNA – poteva trattarsi anche di RNA – non sappiamo molto neanche sull’origine di questa macromolecola strepitosa. Si pensa ad una evoluzione molecolare che ne ha prodotto una forma gigantesca, nel corso dei millenni. Una evoluzione tesa al gigantismo molecolare, simile a quella che generò i dinosauri giganti sulla Terra. Però, che si trovi in una dimensione spazio temporale difficile da definire questo è stato appurato dai nostri scienziati. Questa macromolecola di DNA esiste in una dimensione ambigua dello spazio tempo. Sta in due diverse realtà. Sta qui e sta nello stesso tempo altrove. Forse è presente nello stesso tempo su altri pianeti. Difficile da spiegare, ma sembra che sia così."
"Ricordo che sulla Terra, c’era un ricercatore si chiamava Rieper. Nel 2008, un anno prima del mio decesso, pubblicò una ricerca scientifica in cui faceva accenno al fenomeno quantistico dell’entanglement. Lo scienziato sosteneva che l’entanglement potrebbe essere essenziale la struttura del DNA, contribuendo a mantenere unita la doppia elica che lo compone. Ogni nucleotide del DNA è rappresentato come un nucleo carico positivamente, circondato da una nube elettronica. Il movimento relativo del nucleo e della nuvola, associato all’unione dei nucleotidi per formare le basi del DNA ed alla vibrazione della catena risultante producono un fotone, una quasi particella che descrive un quanto di vibrazione in un reticolo cristallino. Se si simula il comportamento di questa struttura vicino alla zero assoluto, si ha l’entanglement tra fotoni. Rieper ha verificato che il fenomeno avviene anche a temperatura ambiente. E non solo: senza entanglement, le catene di DNA si rompono. La ricercatrice afferma che la verifica della validità di questo quadro teorico è data dal modello classico del DNA, la cui energia intrinseca è insufficiente a mantenere la macromolecola unita.
"Dicono al Centro che il fenomeno quantistico dell’entanglement presuppone l’esistenza di uno spazio fisico con diverse valenze e proprietà. Come vede, c’è molto da approfondire ancora."
Alterio Giorgio: "Ma quando sono arrivato qui, quando sono stato resuscitato, non ho visto nessuna macromolecola gigantesca."
Arturo Graffio: "Forse, guardava altrove. Era talmente meravigliato di ritrovarsi vivo col corpo che non l’ha notata. Oppure l’ha vista, ma non ci ha fatto caso. Oppure, c’era foschia in cielo."
Alterio Giorgio: "Sì, ho ricordi confusi riferiti a quel momento. Mi ricordo solo che ero esterrefatto."
Arturo Graffio: "Voi resuscitati uscite tutti da un unico buco che sarebbe la fine di una lunga caverna. Lei è di Napoli, ricorda la grotta della Sibilla di Cuma?"
Alterio Giorgio: "La visitai parecchie volte."
Arturo Graffio: "Come quella grotta, anche il cunicolo in cui lei ed io siamo stati resuscitati e ne siamo fuoriusciti ha minuscole diramazioni secondarie, collegate ad una base comune che è il posto da cui si svolge la Struttura Miracolosa di questo DNA gigantesco. Questo tipo di DNA gigante si attorciglia, e s’avviticchia in una forra che a sua volta ha numerose diramazioni, collegate alla grotta da cui fuoriescono i resuscitati. Non sappiamo come avvenga il processo che porta alla resurrezione dei corpi. Però, non tutti sono resuscitati, solo una minima parte. Grazie ad alcuni grandi scienziati che lavorano al Centro tra cui Einstein, Gödel, Scrödinger ed alcuni grandi biologi e geni dei computer, siamo riusciti a condizionare l’attività della macromolecola gigante. Adesso, riusciamo a resuscitare solo chi vogliamo noi. In genere, è gente che si è distinta sulla Terra perché onesta, con un alto quoziente intellettivo e soprattutto fidata. Per adesso, resuscitiamo in particolare Italiani, Francesi, Tedeschi, Inglesi e Statunitensi. In futuro, ci regoleremo in modo da ampliare le razze. Per adesso, non vogliamo complicazioni. Ogni tanto resuscitiamo gente del terzo Mondo."
Alterio Giorgio: "Da usare come workers."
Arturo Graffio: "Ringraziassero chi di dovere…"
Alterio Giorgio: "Dipende dai punti di vista."
Alterio Giorgio si rese conto che doveva fermarsi. Non doveva parlare così. Pericoloso contestarlo.
Arturo Graffio disse: "Questa gente del terzo mondo, se potesse venire qui direttamente dalla Terra, non esiterebbe a farlo. Come fanno sulla Terra i clandestini che sfidano le onde del mare per approdare a Lampedusa. Penso che qui, chi più e chi meno, prima o poi sono tutti felici."
"Se ho capito, esiste su questo pianeta una macromolecola di DNA gigantesca in grado di assemblare corpi di persone morte sulla Terra, farne delle copie perfette, coscienza compresa e di farle resuscitare qui."
"Più o meno sì."
"Saremmo dei cloni. Copie talmente perfette d’individui morti, da ereditarne anche la coscienza e tutti i loro ricordi, o quasi."
"Quel quasi è giusto. Non siamo le stesse persone vissute sulla Terra. E’ vero."
Alterio Giorgio: "Penso che sia così, visto che i corpi originari, quelli da cui deriviamo, sono in disfacimento nei cimiteri terrestri. A volte, ho delle strane amnesie che solo adesso mi spiego. Sono un medico ed a volte non ricordavo alcuni particolari anatomici molto facili come il nome di alcune arterie del corpo, alcuni fasci nervosi ed alcune aree cerebrali. Adesso, me lo spiego. Essendo copie, pur perfette, siamo sempre delle copie di esseri vissuti altrove ed in altri tempi. Non siamo originali e quindi qualcosa inevitabilmente, dell’originale si perde. La copia di un quadro, come quelle che fanno i falsari, sia pur perfetta, non sarà mai l’originale che contiene – se si può dire – l’anima dell’artista, tutte le sue pene, le sue frustrazioni e gioie."
Arturo Graffio: "Vede... Immagino che il DNA abbia proprietà ancora da scoprire, oltre a quelle legate alla propria duplicazione molecolare. E’ la molecola alla base della vita, dopotutto. Le ricerche scientifiche sulla sua vera natura andrebbero intensificate. Lei, caro dottore, dovrebbe occuparsi di questi misteri. Sa perché lei è stato prescelto per la resurrezione? Perché era medico, ma invece di fare soldi come molti suoi colleghi con la libera professione, si è chiuso in un laboratorio a fare ricerche molecolari. Ricerche scientifiche di ottimo livello."
Alterio Giorgio: "Farò parte di una equipe di scienziati, immagino. Avrò un lavoro omologo a quello sulla Terra. Tutto si replica. Va bene. Accetto."
"Quando le mostrerò questa macromolecola resterà di stucco. E difficile da spiegare a parole. Si tratta di un tipo di DNA gigantesco la cui massa non si sa dove sia, eppure è in grado di assemblare materia e di farci resuscitare simili a com’eravamo sulla Terra."
Alterio Giorgio volle distogliere gli affannosi pensieri, i tanti perché e le perplessità. Volle ammirare la natura che al contrario di quella lasciata intorno alla città era rigogliosa. Non c’era più la neve, ma ampie distese di verde e di conifere. L’autostrada oltrepassava dirupi ed avvallamenti sopra ponti mozzafiato. Sotto i ponti, si vedevano appena i torrenti spumosi. In lontananza, monti azzurrini coperti ancora di neve. Adesso, le asperità del terreno si erano ridotte ed i dolci declivi erano pieni di querce e castagni secolari con enormi rami che s’intrecciavano. Il sole alto nello zenit rifrangeva raggi come lame di oro ed argento su limpidi laghi e vorticosi torrenti. Lungo i dorsali di tonde colline ed alla base di picchi rocciosi, muraglie di siepi iridescenti. Adesso, la topografia era meno varia e si vedeva un grande altopiano con all’orizzonte ondulate colline. I prati erano di un verde pallido con variopinti fiori di bosco, di ciclamini ed in alcuni punti, di tulipani. Sugli alberi si vedevano gli uccelli: il passero con la gorgiera rossastra, cardellini cinguettanti e gialli usignoli. Nonostante la velocità, Alterio Giorgio aveva scorto con ammirazione una pistola che cantava su un albero ai bordi della carreggiata. Aveva esclamato: "Sembra di stare sulla Terra. Stessi alberi, stessi uccelli, vallate e torrenti."
Arturo Graffio: "Proprio un pianeta gemello, ma non inquinato, con meno gente e meno stronzi."
Alterio Giorgio: "Beh, mi consenta: quanto agli stronzi, quelli non mancano mai."
Arturo Graffio: "Però, qui non ci sono mai state guerre. Già questo è un ottimo risultato. Forse perché la Commissione tiene sotto controllo gl’inevitabili terremoti nella società. Non ci sono state mai stragi, desaparecidos, carceri a vita e guerre civili."
Alterio Giorgio: "Mi ricorda la pax auguastana dei Romani."
Arturo Graffio: "Qui la gente è contenta. Lo sa anche lei. Mi dica. Ha deciso se lasciare l’appartamento in città e di stabilirsi in via definitiva nel Centro?"
Alterio Giorgio: "Vorrei mantenere l’appartamento in città ed andarci di tanto in tanto. Tutto sommato potrei affrontare le spese di due alloggi. Sono singolo, non ho grosse spese e grosse pretese. Nei primi tempi, vorrei fare così. Poi deciderò cosa fare in via definitiva. Ma dove si trova il Centro?"
Arturo Graffio: "Siamo quasi arrivati. In mezzo a questo grande altopiano la cui estensione è come la Sicilia sulla Terra, sorge un vulcano spento di cento metri di altezza. Altitudine misurata rispetto all’altopiano. Se si somma l’altitudine dell’altopiano e quella del vulcano spento, allora la vera altezza dovrebbe essere quasi mille metri. I bordi del vulcano sono spesso coperti di neve. Il Centro è sul ciglio del vulcano alla cui base c’è la caverna da cui fuoriescono i resuscitati. Dalle finestre del Centro è possibile osservare i gruppetti dei resuscitati uscire periodicamente dalla caverna ed essere accolti dai delegati della Commissione."
Alterio Giorgio: "E’ strano che pur essendo nei paraggi, nessuno a come mi risulta, veda la macromolecola."
Arturo Graffio: "Penso che si mostri in determinati momenti ed a determinate persone. E’ come un oggetto che risponda all’equazione di Scrhödinger: è vero e non è vero nello stesso tempo. E’ reale e non è reale nello stesso tempo. E’ qui ed è altrove nello stesso tempo. Dipende dai punti di vista. I resuscitati non sono preparati a vedere quella macromolecola che li ha riportati in vita. Anzi, che li ha duplicati. Tutti pensano di trovarsi nell’aldilà."
Alterio Giorgio: "Tutto ciò mi stupisce e m’incuriosisce. Qui sembra tutto normale, ma è tutto diverso."
Arturo Graffio: "Anche sulla Terra era così anche se più difficile da rilevare. Ricordo tre versi di Eliot:

Il tempo presente ed il tempo passato
sono forse presenti nel tempo futuro
ed il tempo futuro è contenuto nel passato.

Poi, la meccanica quantistica coi suoi enigmi insoluti... Il problema insoluto della mente umana e della coscienza. Per non parlare del resto. Chi ci dice che i nostri ricordi debbano per forza finire con la vita passata? Siamo qui a contraddire questi assunti."
Alterio Giorgio: "Ovunque mistero. Mistero da svelare. Ma perché ci accaniamo a rimuovere montagne e montagne di mistero?"
Arturo Graffio: "La fatica di Sisifo, ricorda? Portava sulla cima un masso destinato a cadere in valle. Sisifo lo riportava in cima ed il masso ricadeva giù. Per l’eternità. Che assurdità! E’ vero. Che assurdità, dopotutto."
Alterio Giorgio: "L’eternità potrebbe essere la vera condanna per noi esseri coscienti, condannati a desiderarla sempre."
Accesasi una sigaretta, Arturo Graffio aveva detto: "Forse siamo nel profondo insoddisfatti. Lo siamo geneticamente. Comunque, appena vedrà la Cosa rimarrà strabiliato e non avrà per la testa idee, mi permette? bislacche. Tutti ne restano estasiati."
La Maserati macinava chilometri silenziosa come un treno super veloce. In lontananza, cominciava a vedersi la sagoma scura e conica del vulcano. Però, appariva come una cresta rilevata per poche decine di metri. Alterio Giorgio disse: "Dottore, è quello il vulcano?"
"Sì, è quello. Una ventina di minuti e saremo arrivati. La strada percorrerà un giro di spira intorno alle creste del vulcano e saremo nello spiazzo del Centro."
"Sul ciglio mi sembra di vedere un edificio bianco; una costruzione poligonale con vetri smerigliati ed ampie finestre."
"Ci sono anche ampi terrazzi con i binocoli sui treppiedi, piazzati in modo da rendere possibile la vista di dove la grotta sbocca all’esterno, da dove a determinati intervalli, fuoriescono i resuscitati."
"Però, dall’interno del vulcano spento sembra elevarsi per circa un chilometro di altezza un alone luminoso. Sembra una nuvola che si allunga verso l’alto, sembra vapore... sembra una specie di turbine polveroso come un uragano in formazione."
"Non è vapore, né è una nuvola. Quella è la Cosa."
"Quell’alone che sembra il gambo enorme di un uragano sarebbe la Cosa, in grado di resuscitare i morti? Quella cosa mi ha resuscitato qui?"
"Secondo alcuni la Cosa avrebbe funzioni ancora più strabilianti. Secondo alcuni, la Cosa modellerebbe lo spazio ed il tempo, dilatandolo o restringendolo. Funziona comunque come un gigantesco DNA, dotato d’intensa attività elettrica. Questo è certo. Dottore, nei prossimi giorni i suoi colleghi del Centro risponderanno a tutte le sue domande, anche se i dubbi restano. Restano a tutti i dubbi. Comunque, quel coso cambia aspetto. Da vicino, l’alone che lo circonda e che lo fa sembrare come il gambo di un uragano... quella specie di guscio si dirada; diventa diafano, sottile come nebbia."
"E che si vede?"
"Si vede la sua essenza: una enorme doppia elica nebbiosa... due cordoni luminescenti simili ad enormi filamenti di DNA che si allungano nello zenit in senso antiparallelo e che si avvitano su se stessi."
"Incredibile."
"I colleghi della squadra di cui farà parte le forniranno le dovute spiegazioni. Comunque, tutto quello che saprà e vedrà è coperto dal segreto di Stato. Chi divulga notizie segrete sarà condannato alla decapitazione, cioè alla morte definitiva."
La Maserati aveva raggiunto lo spiazzo antistante il Centro. Da una parte c’era l’entrata e dalla parte opposta, la lunga ringhiera che permetteva la vista all’interno del vulcano da cui si elevava altissima la strana conformazione a doppia elica che sembrava avvitarsi nella volta celeste. Alterio Giorgio si avviò verso la ringhiera mentre l’alto dirigente parcheggiava meglio. Il cielo sgombro di nubi e la struttura elicoidale ancora più imponente. Alterio Giorgio ne fu incantato. Ammirava i due tentacoli a spirale simili a cordoni di fumo, o di denso vapore, o di nebbia. Sembrava una colonna gigantesca che s’attorcigliava, salendo verso il cielo. Una grande colonna di fumo bianco. La cosa s’avvitava a perpendicolo in cielo e la sua parte estrema non si vedeva perché inoltrandosi nella vastità dello zenit, si affusolava e si rimpiccioliva come un filo, divenendo invisibile ad occhio umano. Sbuffi di vento non scalfivano la struttura che sembrava esistere nella fantasia di chi la osservava, oppure che sorgesse all’interno di una diversa configurazione spazio temporale. Poteva essere una proiezione di una immagine prodotta altrove a simulare una macromolecola di DNA. Una specie d’immagine oleografica. Però, la struttura era in grado di assemblare materia amorfa e di riformare esseri umani vivi e vegeti. Esseri umani morti sulla Terra e resuscitati in breve tempo per mezzo della formazione spiraliforme, chiamata DNA gigantesco. Alterio Giorgio disse una sola parola quando il dirigente superiore gli fu vicino: "Incredibile."
"Col naso in su Arturo Graffio disse: "I suoi colleghi di squadra glielo spiegheranno. Fa tutto questa struttura: assembla materia mediante forze elettriche e la ricompone, costruendo esseri del tutto uguali a quelli esistiti sulla Terra. Anche la coscienza ed i ricordi sono gli stessi di quelli appartenuti al resuscitato. I nostri corpi sono nei cimiteri sulla Terra. Tuttavia, secondo rigidi canoni, noi siamo qui assemblati con medesima identità. Volenti o nolenti, ne abbiamo per oltre centocinquanta, centosessant’anni."
Davanti alla facciata del Centro, al di sopra dell’architrave d’entrata, Alterio Giorgio lesse in caratteri cubitali la frase in latino che apprese essere di Cicerone:

NON TIBI SOLI VIVIS, NON TIBI SOLI NATUS ES

Sotto la dicitura, il disegno in verde fosforescente della doppia elica del DNA, visibile a distanza di notte. Era una specie di stemma, o emblema che Alterio Giorgio avrebbe visto su molte porte del Centro. Varcarono la soglia dell’edificio. Si vedeva un interminabile corridoio con luccicante pavimento e una fila di porte presumibilmente uffici, sia a destra che a sinistra. Nella volta, erano incastonati quadrilateri al neon a distanza regolare che davano luce all’interno. Di fronte all’entrata, la reception con le guardie della security. Andarono al primo piano, all’ufficio del direttore. Alterio Giorgio disse in ascensore: "Ero tanto ammirato dalla vista del DNA - gigante che non ho badato all’edificio. Quanti piani sono?"
"Sei piani. L’edificio è lunghissimo. I primi tre piani sono sottoterra. Io la consegno al direttore e vado via. Il direttore le fornirà tutti i particolari dell’orario lavorativo, la presenterà alla squadra con cui collaborerà e la istruirà su altre specifiche funzioni."
Erano arrivati nel corridoio della direzione. Si avviarono alla porta di fronte all’ascensore. Appena bussarono, una bella donna con giacchetta verde e gonna nera da sopra i ginocchi li accolse con discreto sorriso. Arturo Graffio disse chi era ed entrò, seguito da Alterio Giorgio. Dietro la scrivania, il direttore del Centro che appena li vide si alzò e tese la mano, prima ad Arturo Graffio e poi ad Alterio Giorgio. Fatte le presentazioni, Arturo Graffio volle subito andare via. Nella stanza erano rimasti il dottor Cristoforo Liborio ed Alterio Giorgio. Il primo seduto su una lussuosa poltrona di pelle, dietro una massiccia scrivania di noce e l’altro a lui di fronte, seduto dal lato opposto. La donna che aveva aperto la porta dell’ufficio stava in stanza attigua, collegata dall’interno col direttore. Alle spalle della poltrona di Cristoforo Liborio, un’ampia vetrata da cui appariva il cielo luminoso e la lunga, interminabile spirale lattescente che si arrampicava in cielo. L’uomo in poltrona portava un paio di baffetti neri e una folta capigliatura con la riga. Capelli ondulati che gli davano una vaga aria di romantico sognatore. Anche quegli occhi un po’ allungati a mandorla con l’iride d’un azzurro chiaro rendevano la faccia con alti zigomi attraente, tutto sommato. Quando si era alzato mostrava un’altezza media e spalle abbastanza robuste. Il colorito della pelle era olivastro, forse un difetto di duplicazione perché in vita doveva essere stato alquanto bruno. Questo particolare della pelle scura lo aveva confidato lui ai suoi colleghi. Però pochi ci credevano perché era di moda incolpare a qualche difetto connesso alla resurrezione del proprio corpo, qualche difettuccio come un grosso neo, un ciuffo di capelli bianco, un’iride dall’insolito colorito... Cristoforo Liborio disse: "Dottore, dovrebbe per favore favorirmi la sua tessera d’identità."
Alterio Giorgio la prelevò dal taschino interno della giacca, la sfilò dal portafogli e gliela porse. Nel compiere queste operazioni con la mano sinistra, Alterio Giorgio avvertì una fitta al collo a causa della ferita. Cercò di sdrammatizzare e si forzò di sorridere. Il direttore aprì il portatile, estraendo un cassetto della scrivania e controllò i dati.
Disse: "Adesso, le stampo il pass. Dovrebbe andare dalla mia segreteria per la foto da inserire nel pass."
Alterio Giorgio andò nell’altra stanza dove la donna gli fece una foto con la macchina fotografica a tre piedi che teneva in un angolo.
Prima dello scatto gli disse: "Sorrida."
Di conseguenza, Alterio Giorgio si sforzò di stirare un po’ le labbra per un sorriso sfuggente.
Lei insisté: "Sorrida di più. Pensi a qualcosa di bello…"
Non aveva voglia di sorridere. La nuca gli doleva. Era scocciato di tutto. Sorrise come prima. La donne fece un sospiro di rassegnazione. Lo sviluppo fu istantaneo e la donna consegnò al direttore la foto a colori da inserire nel cartoncino per il pass. Il direttore aveva al polso un costoso orologio Breguet Classique 5197 di ventimila euro (ultratombali). Dal prezzo dell’orologio, Alterio Giorgio dedusse che il direttore doveva avere un ottimo appannaggio per il ruolo che copriva. Aveva addosso un abito di lana Principe di Galles, camicia in popeline di cotone, tutto Moschino (prezzo: ultratombali euro duemila) e scarpe di pelle Prada (370 euro ultrat.). La donna invece indossava una specie di divisa con scarpe nere di pelle abbastanza costose visto che erano di Prada (400 euro ultrat. circa). Cristoforo Liborio, direttore del Centro porse la tessera d’identità ed il pass ad Alterio Giorgio. I due stettero ancora seduti ai loro posti da un capo all’altro della scrivania divisoria.
Cristoforo Liborio disse: "Dottore, penso che grosso modo sappia dell’attività del Centro dove ci lavora il fior fiore degli scienziati. Grazie ad alcuni grandi scienziati in particolare biologi ed ingegneri informatici, siamo riusciti una diecina di anni fa a condizionare a nostro vantaggio l’attività della macromolecola gigantesca che vede alle mie spalle. Prima, oltre dieci anni fa era la macromolecola in un certo senso a decidere chi dovesse resuscitare, in base non so a quali criteri. Adesso, mediante un sistema di computer system hard share, soft share e flussi di fotoni accelerati comandiamo, regoliamo e condizioniamo l’attività del DNA gigante. In poche parole, stiliamo delle liste il cui numero è rapportato a quello delle persone che scompaiono dopo il termine dei 150–160 anni. Di solito, la lista è incrementata di una cinquantina di persone rispetto al numero reale, questo perché la popolazione complessiva del pianeta non è numerosa. Siamo relativamente in pochi. Alcuni resuscitati, o duplicati che dir si voglia, sono utilizzati dalla società come workers. Gli altri come me e lei, hanno mansioni superiori e meglio remunerate. Sulla Terra, ci sono oltre sei miliardi di persone. Tutto sommato, qui è più tranquillo."
Alterio Giorgio estrinsecò dei dubbi: "Direttore, su questo pianeta saremmo solo noi umani ad essere duplicati dalla macromolecola gigante. Ci sono specie di animali simili a quelli terrestri: volatili, pachidermi come elefanti, maiali, mucche e perfino scimmie. Alcuni li ho visti in fotografia come le scimmie che vivono nella ristretta zona equatoriale, dove non sono mai stato. Queste specie di animali come quelle degli alberi ed ogni altro tipo di pianta sarebbero autoctone?"
"E’ così. Alcune specie di animali però non esistono sulla Terra come l’Ippotango, un d’ippopotamo gigante che vive nelle paludi equatoriali di questo pianeta. Ci sono scimmie antropomorfe ed anche ominidi, ma tutti nella ristretta zona equatoriale. C’è l’Ippogrifo (mezzo cavallo e mezzo falco, con artigli da falco e testa di cavallo), c’è il Carnaronte a metà tra il cammello ed un grosso uccello, il Rarmanguro che ha abitudini notturne, pur sembrando un canguro (parte superiore del corpo) e una rana (parte inferiore). Come sa, il pianeta è molto freddo, molto più freddo della Terra. Pensiamo che su questo pianeta l’attività della macromolecola gigante sia sopravvenuta in un secondo tempo, quando la vita arborea ed animale aveva già cominciato ad evolversi. Forse, esistono molte macromolecole giganti negli spazi siderei dell’universo, alcune delle quali s’impiantano e s’innestano in un pianeta compatibile con la vita, esplicandovi specifiche funzioni di duplicazione. Alla base di tutto ci sarebbe la natura profonda di questo universo la cui esistenza si basa su principi di supersimmetria. Gruppi di scienziati del Centro si occupano proprio di questi problemi, cercando di risolverli anche se ardui."
"Capisco. Mi piace misurarmi con misteri di questo tipo. Adesso, la vita comincia di nuovo ad interessarmi. Incredibile è la vastità del mistero. I miei ricordi, i ricordi riferiti alla precedente esistenza sarebbero dei semi – semi di fiori odorosi – provenienti da un essere morto sulla Terra. Ricordi che in me s’innestano, essere del tutto simile, ma non identico all’Alterio Giorgio, deceduto sulla Terra il 27 di maggio del 2009."
"Su queste cose, ci sono anche i filosofi del Centro che fanno disquisizioni. In tutti i modi, come si renderà conto lavorando al Centro, cerchiamo di addivenire a razionali conclusioni. Lei lavorerà in una squadra di quattro persone, due donne e due uomini. Alcuni gruppi di ricerca si sforzano di prolungare la nostra esistenza qui per oltre i due secoli. Lei lavorerà in una squadra di quattro persone, due donne e due uomini. La capo squadra è la signora Conte, Amelia Conte. Tra poco glieli presenterò. Gli emolumenti mensili assommano per i primi tre anni ad euro ultratombali 3.200 netti. Dopo i tre anni – se la Commissione riterrà che lei debba essere assunto in via permanente – il suo stipendio passerà a 5.000 euro ultratombali, incrementabili di anno in anno. Tenga presente, ma penso lo sappia già, che il valore dell’euro ultratombale è rapportato a quello sulla Terra. Cioè un euro ultratombale ha lo stesso valore di un euro della Confederazione Europea terrestre. Adesso, la presenterò alla sua squadra di lavoro. Le do anche questo libretto che descrive tutte le attività del Centro e le sezioni che lo compongono coi relativi capi sezione, direttori di primo livello, di secondo e di terzo livello. Oltre i direttori di terzo livello, ci sono i dirigenti superiori ed il direttore generale del Centro."
Alterio Giorgio dovette appuntarsi all’occhiello il pass e mise l’opuscolo nella tasca del cappotto. L’ascensore questa volta scese sotto terra a pian terreno. Entrarono in ampia stanza la cui parete ad occidente presentava una specie di cunicolo con in fondo una grossa finestra. Ad entrambi i lati del cunicolo con finestra, due porticine. Nella stanza, un lungo tavolo arcuato a ferro di cavallo, pieno di fili, computer, antenne e monitor di varia grandezza e spessore. Incastonato nella parte centrale del tavolo, un grande schermo rettangolare di due metri per uno. Nella stanza dietro i rispettivi monitor, le quattro donne ed i due uomini. Tutti avevano una specie di divisa simile a quella indossata dalla segretaria del direttore. Come il direttore entrò tutti si alzarono, alcuni spegnendo i computer. Il direttore presentò Alterio Giorgio ai sei con cui avrebbe dovuto collaborare per una lunga serie di anni.
 Il direttore disse ad Alterio Giorgio: "Dottore, la lascio in compagnia dei suoi colleghi. Io torno sopra. Se ha problemi, venga di nuovo sopra e me li comunichi. Buona giornata."
I sei con cui Alterio Giorgio avrebbe dovuto lavorare erano: dottore Biagio Fiume, dottore Calogero Isola, la dottoressa Virginia Monte e la caposquadra Amelia Conte e due assistenti donne molto giovani, sulla ventina di anni. La prima era Rosalba Duna, la seconda che porse la mano ad Alterio Giorgio era Ada Ramo. Tutti avevano tra i trenta ed i trentacinque anni (ultratombali), tranne le assistenti, come detto.
La capo squadra disse: "Dottore, si sieda accanto al collega Biagio Fiume. Il collega le spiegherà le prime cose che dovrà fare. Avrà mansioni sempre più complesse, in particolare nella ricerca biologica."
Biagio Fiume prese una sedia e se la mise a lato. Alterio Giorgio vi si sedette. Davanti a loro due computer accesi. Biagio Fiume, uno magro, alto più di lui con capelli castano chiari disse: "Stiamo preparando la lista dei prossimi resuscitati."
Fece vedere l’elenco delle persone morte sulla Terra che tramite l’attività misteriosa del DNA gigante sarebbero dovute essere assemblate e ritornare a vivere. Biagio Fiume spiegò: "Vedi, la lista è divisa in tre parti. In tutto, devono essere resuscitati in trecento trenta. Questo numero – trecentotrenta – è dedotto da quelli che scompaiono al termine della loro esistenza cioè dopo 150–160 anni, più il dieci per cento d’incremento. Cioè trecento sono gli scomparsi nell’ultimo mese, più trenta. Questi trenta individui sono stati inseriti in soprannumero perché il pianeta è scarsamente popolato. In tutto, siamo meno di cinquecento milioni, mentre sulla Terra sono oltre i sei miliardi. Questo pianeta, poi è di qualche chilometro più grande, mi riferisco alla circonferenza equatoriale, rispetto alla Terra. Come dicevo, la lista contiene tre elenchi. Il primo riguarda i ventenni; sono da resuscitare quelli per lo più giovani che sulla Terra sono deceduti dopo un lungo coma. Incidenti, aneurismi, vittime di violenze…"
"Sono giovani entrati in coma, presumo negli ultimi tempi e che intendete resuscitare per una sorta di risarcimento esistenziale."
"Sì, però per lo più sono Italiani, od europei occidentali, o del Nord America. Ne sono cento. Nella seconda categoria rientrano quelli con alto quoziente intellettivo, deceduti negli ultimi dieci anni: scienziati per lo più. Nella terza categoria, sono ripescate le vittime di genocidi quasi tutti ebrei ed armeni. Ci sono infine i trenta da aggiungere alla lista che sono scelti tra quelli con doti morali elevate e di animo mite, per esempio mistici, filosofi e qualche scrittore. Alcuni sono resuscitati perché adatti ai lavori pesanti e manuali. Questi ultimi saranno workers."
"Come fate a resuscitarli?"
"Li resuscita la macromolecola che aleggia alle nostre spalle. Tranne l’uno per mille, si può dire che la macromolecola faccia un ottimo lavoro. Su mille resuscitati, in media uno solo non riesce."
"In che senso non riesce?"
"Resuscita male. Su mille resuscitati, ce n’è in media uno che resuscita male. Cioè non ricorda niente della vita passata, o ricorda qualcosa. Sono resurrezioni mal riuscite. Assemblaggi parziali. Non sappiamo il perché di questi difetti di duplicazione, ma avvengono anche se in percentuale molto bassa, l’un per mille, ripeto. Queste persone resuscitate o duplicate in malo modo sono soppresse prontamente da una squadra speciale, istituita ad hoc dalla Commissione. Qui non sono ammessi gli scemi, tanto per intenderci. Non sono ammessi neanche quelli che non ricordano nulla della vita passata e che perciò sono dei diversi. Qui deve tutto filare per il meglio, secondo i canoni stabiliti dalla Commissione che tramite noi scienziati, manovra l’operato del DNA replicante."
"Mi ricordano i bambini di Sparta, la città della Grecia antica. Quelli deformi erano buttati giù dalla torre più alta della città. A Sparta, servivano solo quelli in salute."
Alterio Giorgio si guardò attorno. Le due donne erano belle sulla trentina, una bruna coi capelli corti e l’altra bionda coi capelli lisci, tenuti stretti sulla nuca da un tupé. Le due assistenti ventenni andavano e venivano dalla sala, entrambe snelle ed attraenti. Belle, giovani, intelligenti e forse disponibili, pensò là per là Alterio Giorgio. Cerando di non distrarsi più, chiese al collega, a Biagio Fiume: "Sì, ma chi decide sulle persone da resuscitare?"
"Per ogni nominativo abbiamo una scheda come questa, con numerosi fori che il computer decifra ed elabora, inviando alla fine impulsi elettrici di bassa frequenza al DNA gigantesco. Gran parte del processo di assemblaggio che il DNA effettua non ci è noto, però ne abbiamo compreso alcuni punti cardine e per questo riusciamo a dirigerlo, facendo resuscitare solo chi desideriamo. In poche parole, il DNA-gigante resuscita solo chi vogliamo noi. Ci obbedisce come un mansueto cavallo. "
"Chi elabora gli elenchi?"
"Domanda indiscreta, ma compatibile. Gli elenchi ci sono passati dal direttore del Centro che li riceve – presumo – dagli alti gradi della Commissione."
"Il mio ruolo se non erro, sarebbe quello di carpire alcuni dei segreti del DNA-gigante. Capire alcuni meccanismi di funzionamento perché ci si possa trarre dei vantaggi."
"Più o meno questo è il compito di tutti gli scienziati che lavorano al Centro. Questo era del resto anche il compito primario della Scienza sulla Terra. Tu dovresti occuparti di ricerca in un settore speciale, finalizzato ad allungare la durata della resurrezione. Invece di sopravvivere per oltre 150 anni, vorremmo rinviare la nostra scomparsa per un altro secolo. Alcuni scienziati ipotizzano che ciò sarebbe possibile, ma bisogna approfondire molti problemi legati alla biologia molecolare, alla meccanica quantistica ed alla dinamica della fisica classica. Una cosa certa: l’assemblaggio vero e proprio di un organismo umano avviene nel cunicolo che porta all’esterno. Questa funzione di creare ex novo esseri umani è operata da forze di natura elettrostatica presenti nel lungo cunicolo da cui fuoriescono i resuscitati."
Alterio Giorgio osservava gli altri della squadra, tutti con gli occhi appiccicati ai rispettivi computer. L’attività del Centro comprendeva l’elaborazione dei dati, la composizione delle schede bucate, i comandi da inviare alla macromolecola gigante, l’allestimento dei curricula che i membri della Commissione avrebbero distribuito ai resuscitati e l’attività di ricerca di base in biologia, chimica e fisica. Un reparto secondario per importanza, una specie di sartoria ante litteram formata da macchine per l’assemblaggio dei vestiti ed indumenti vari (scarpe comprese), si occupava della cucitura, rifinitura e stiratura dei vestiti su misura che i resuscitati avrebbero indossato prima di fuoriuscire dal tunnel, evitando di presentarsi nudi ai delegati della Commissione di Controllo Resuscitati (CCR).
Biagio Fiume disse: "L’inserimento dei dati avviene tramite questo computer modificato che emette segnali in uscita a bassa frequenza. Noi inseriamo la scheda in questa fessura. Come ho detto, la scheda riporta i dati della persona da resuscitare. Ti faccio vedere. Inserisco la scheda relativa alla persona E - 4 che sarebbe il dottor Gianni Mina, deceduto sulla Terra il 20 gennaio di quest’anno. Adesso, siamo a inizio marzo. Ecco. Tra una diecina di minuti, gl’impulsi saranno trasmessi al DNA tramite quelle fibre di platino che percorrono cunicoli sotterranei, raggiungendo un commutatore ed un amplificatore. Gl’impulsi elettrici saranno trasformati in onde a bassa frequenza che raggiungeranno determinati recettori sotterranei del DNA gigante. Una volta che la molecola ha ricevuto i segnali giusti, si forma uno speciale campo elettromagnetico e comincia l’assemblaggio di materia al suo interno. A partire da micelle, molecole, ioni ed acqua sarà assemblata un nuovo essere umano. Dopo appena dodici ore, il nuovo individuo sarà pronto a fuoriuscire dalla caverna per essere accolto da noi. Organizziamo le cose in modo che in contemporanea tutti i trecento trenta resuscitati escano dalla grotta. Per fare ciò, inviamo al DNA un ultimo segnale di via ed i resuscitati, dopo una diecina di minuti si ritrovano in un unico gruppo, lungo la soglia della caverna che conduce a questo mondo. I resuscitati saranno accolti da apposita delegazione della Commissione che darà loro le tessere d’identità e tramite pullman li smisterà nelle varie città e continenti del pianeta."
"Incredibile. Però penso che per oggi può bastare."
La ferita alla nuca gli dava fitte improvvise. Il dottore gli aveva consigliato nei primi tempi di non stare troppo con la testa curvata sui libri, o sul monitor di un computer.
"Facciamo un tentativo. Inserisci una scheda, una qualsiasi. Vediamo come te la cavi."
Alterio Giorgio prelevò una delle schede che stavano ammassate sul tavolo come un mazzo di carte. Stava per inserire la scheda nella fessura, ma si accorse che il suo computer era spento.
Disse: "Devo accendere prima il computer."
"Però devi inserire la scheda nella fessura apposita, accanto al tuo computer. La fessura dove io ho inserito la precedente scheda riguarda il mio computer."
Alterio Giorgio accese il computer, aspettò un poco, tirandosi la nuca indietro per alleviare il dolore della ferita. Alla fine, inserì la scheda che riguardava un certo Liborio Albero deceduto all’età di venti anni, dopo un coma durato sedici mesi."
Biagio Fiume disse: "Adesso, bisogna premere questo tasto che spedisce i dati. Dopo di che il tutto avverrà in automatica."
"Quando fuoriusciranno i resuscitati?"
"Daremo noi l’impulso per il via. Sarà il direttore di sezione a premere quel tasto rosso. Però dobbiamo concedere al DNA il tempo giusto perché tramite le sue attività elettriche assembli materia organica ed acqua dalle profondità del suolo vulcanico."
A lato del computer del direttore c’era un tondo tasto, grande come il palmo di una mano, simile a quelli che bloccano le scale mobili nei terrestri sottopassaggi.
Alterio Giorgio disse: "Sì, ma quando usciranno i resuscitati dalla grotta?"
"Penso per lunedì mattina. Ti dirò io quando con precisione. E’ un vero rito. Noi della sezione quinta usciremo sul terrazzo. Ci saranno ricercatori e scienziati di altre sezioni che vorranno assistere alla fuoriuscita dei resuscitati. Gente tornata a vivere grazie al DNA gigante ed a noi. Li osserveremo dal terrazzo. Ci sono a disposizione anche binocoli e cannocchiali. Un’altra cosa. Alle sedici, devi andare dal sarto al quarto piano, stanza quattordici a prenderti le misure per la divisa. Il sarto ti rilascerà anche una tuta per fare ginnastica, o escursioni sul vulcano."
"Bene."
"E domattina ci vediamo alle otto in punto davanti al Centro per un excursus nel vulcano. Vedrai come la macromolecola gigante si radica nella viscere del vulcano e si collega a laghi e fiumi sotterranei da cui preleva mediante correnti elettriche, micelle, molecole e ioni, insomma, il materiale amorfo con cui costruire i corpi dei resuscitati. Tra poco, andremo a mensa. Se vuoi, puoi venire con noi. Dopo mensa, passerai dall’ufficio servizi – stanza numero nove, quinto piano – dove rilascerai le tue generalità e ti verrà assegnato un mini locale all’interno del Centro, dove riposerai per la notte. Chiaro?"
"Penso di sì."
Alterio Giorgio guardò di nuovo le assistenti ventenni che portavano un camice bianco addosso, come sulla Terra le dottoresse. Osservare la bellezza femminile era stato per lui sempre uno spasso, una gioia dello spirito.
Osservò: "Vedo che qui si rispettano le quote rosa. Le donne abbondano."
Biagio Fiume rettificò: "Le belle donne non ce le facciamo mancare. Però, tutte sgobbano qui dentro. Tutto sommato, mantengono l’ambiente piacevole ed allettante. Però lavorano, non c’è che dire, lavorano per davvero."
"E’ logico. Caro collega, vedrai che non sarò io lo scansafatiche."
Biagio Fiume aveva guardato le lancette dell’orologio a muro. Disse: "Adesso andiamo a consumare il pranzo in mensa."
Uscendosene per il lungo corridoio, Biagio Fiume ragguagliò: "Ci sono tre mense, una per ogni piano. I piani quarto, quinto e sesto non hanno mensa. Noi della sezione quinta pranziamo e ceniamo tutti al terzo piano come le altre sezioni, allocate al terzo piano."
Alterio Giorgio volle sentire la voce di Elena Nube. Prelevò il telefonino. Collegamento immediato: "Amore, quando ci vediamo?"
Elena Nube fu contenta di ascoltare la sua voce. Gli disse: "Amore, quando potrò verrò io da te. Dove stai adesso?"
"Sto in un Centro di ricerca. Sto in un posto lontano molti chilometri dalla città. Non vedo l’ora di rivederti. Ti amo."
Mangiarono un primo a base di spaghetti al ragù con salsa di carne bovina, un secondo a base di castrato di montone, vino rosso locale, insalata verde per contorno, dolce e frutta fresca di stagione.
Alo suo fianco si era seduta una delle ragazze della sezione metafisica del Centro, una certa Patrizia Foglia. Era amica di Biagio Fiume che la salutò e la presentò ad Alterio Giorgio. Una bella ragazza sotto i trent’anni. Bruna, capelli neri ed occhi neri di una vera sognatrice, allungati a mandorla. Era del sud – Italia, una calabrese verace, uccisa sulla Terra a ventiquattro anni per via della Ndrangheta. Era stata resuscitata una diecina di anni addietro. Sulla Terra, si era laureata col massimo dei voti a ventidue anni in psicologia. Laurea conseguita in Inghilterra. Era tornata nel suo paesello nativo in Calabria dov’era stata coinvolta in una faida tra paesani, sequestrata ed uccisa. Masticando cibo, i tre parlarono di varie cose. Patrizia Foglia disse che si occupava di studiare l’ego dei resuscitarti. Alterio Giorgio: "In che senso?"
Biagio Fiume: "Fanno ricerche per stabilire in che percentuale l’io di un resuscitato coincide con l’omologo posseduto sulla Terra dall’individuo originario. E’ così?"
Patrizia Foglia fece cenno di si. Sorseggiando acqua col bicchiere e arrotolando spaghetti con la forchetta, osservando ora Biagio Fiume, ora Alterio Giorgio, disse: "Più studio i fenomeni che stanno alla base dell’identità di una persona è più mi rendo conto di come sia invisibile l’invisibilità e l’indeterminazione della mente umana."
Biagio Fiume tagliuzzando carne al ragù: "In che senso?"
Patrizia Foglia avendo finito di masticare insalata disse: "Non esiste una identità granitica, unica ed indivisibile per ciascuno di noi. Lo stesso era anche per i nostri rispettivi io quando eravamo vivi sulla Terra. Oltre all’io individuale, un io legato al proprio corpo e definibile come io corporeo, esisterebbe un alter ego, una diversa entità che si potrebbe definire con l’aggettivo mentale (entità mentale) la cui distanza nei riguardi dell’io corporeo più essere più o meno grande e può anche variare nel corso dell’esistenza. L’io mentale rinvia ad un individuo (ad una mente) senza equivalente che, in un luogo ed in un tempo determinati, ha partecipato ad un evento. L’io mentale –non è semplicemente un individuo reale, ma può dare luogo simultaneamente a molti ego. La mente che sorregge l’individuo è forse solo una delle possibili specificazioni dell’io."
Biagio Fiume: "Scusa, basta. Se continui con queste cose mi passa l’appetito. Stop."
Patrizia Foglia: "Sono cose molto importanti. Dovrebbero farci capire qual è la nostra vera identità. Dovrebbero farci capire se abbiamo una sola identità oppure molteplici comprese in un unico io."
Alterio Giorgio: "Sono d’accordo con Biagio Fiume. Queste cose andrebbero approfondite lontano dai pasti."
Patrizia Foglia, sorseggiando vino doc: "Voi me l’avete chiesto."
Alterio Giorgio: "Queste cose m’interessano molto. Verrò a trovarti uno di questi giorni e ne riparleremo."
"Patrizia Foglia: "Sto esaminando una paziente resuscitata qui da circa un anno. A volte questa donna dice delle parole sconnesse. Parole al contrario per esempio dice erdam per dire madre. Questa donna dice che all’improvviso è come se in lei comparisse una uguale a lei che parla all’incontrario. Mi capite?"
Biagio Fiume: "Una delle tante che sono state resuscitate in malo modo. Non tutte le resurrezioni riescono. Temo che la poveretta, se non guarirà, sarà sottoposta al processo di soppressione."
Per il resto della giornata, Alterio Giorgio seguì il programma. Dopo mensa, andò dal sarto per la divisa. Il sarto gli aveva detto ch’essendo stato appena assunto, avrebbe ricevuto una sola striscia dorata sul taschino della giacca e mostrine rosse sulla camicia. Dopo i tre anni, avrebbe ricevuto due strisce e mostrine gialle e dopo altri tre anni una terza striscia e mostrine blu. Dopo, avrebbe ricevuto la nuova divisa di primo direttore. Man mano che da primo direttore sarebbe passato di grado, avrebbe ricevuto una divisa diversa, atta a distinguere con evidenza lampante autorità e mansioni.
Passò la notte nel mini locale assegnatogli e mise la sveglia per le sette. Gli sembrò una comune stanza d’albergo ben arredata con televisore, armadietto, stanza da letto, corridoio, toilette e camera per ricevimento ospiti. Era andato in camera sua alquanto presto. Voleva riposare e starsene solo a mettere ordine nel caos dei pensieri. Poi, gli doleva la ferita alla nuca. C’era un balconcino da cui si vedevano i ripidi declivi dei fianchi vulcanici e l’altopiano a perdita d’occhio. Ovunque, la neve si diradava e ingigantivano isole di verde lussureggiante, di foraggi vellutati e graminacee. Nelle zone boschive non distanti dall’albergo, in quei boschi di eucalipti sempreverdi, si addensavano cupe ombre turchine, come tenue riflesso del giorno da poco calato. Aveva le fitte alla nuca a causa della cicatrice che si stava indurendo, ma ci stava facendo abitudine. Solo che stentava a prendere sonno.
Volle telefonare ad Elena Nube. Il telefonino non rispondeva. Non c’era linea, o era spento. Lasciò perdere. Nel profondo della notte, sognò di Carmela. Non fu un sogno come al mattino capì, ma si trattò di una visione. Nel sogno, regna l’illogicità e nella visione gli eventi e le immagini hanno successione reale. Poi nel nuovo mondo, nessuno sognava. Se nel nuovo mondo il sogno era impossibile, allora quella doveva per forza essere stata una visione. In un modo o nell’altro, l’avrebbe vista. Carmela gli stava dietro la ringhiera del letto, era pervasa da una luce azzurrina ed aveva una lunga mantiglia nera alle spalle. Per il resto, aveva il vestito di quando era sparita. Disse: "Amore mio, non mi cercare più. So che vorresti riportarmi qui tramite il potere del DNA gigante, ma non è possibile. C’è un flusso che procede sempre nella stessa direzione. Impossibile è andare nella direzione opposta. In un tempo remoto ci rivedremo, lo so. Ma ora tu vivi la vita che ti hanno dato. Non ribellarti e procedi secondo gli usi e i costumi. Ci rivedremo un giorno... un giorno quando saremo per davvero noi."
Alterio Giorgio si era svegliato e vide che oltre le tende già albeggiava. Aveva il viso rigato di lacrime. Aveva pianto nel sonno. Si riaddormentò e verso le sette, la sveglia lo tirò dal letto. Si fece doccia, sbarbatura e tutto il resto. Aveva indossato la tuta per l’esplorazione nella bocca del vulcano. Se avesse fatto in tempo, in mattinata voleva prendere il treno super veloce per andare in città a casa sua e prendere alcuni vestiti. Poi, voleva controllare che tutto fosse in ordine. Voleva prendere anche la macchina fotografica per dare sfogo ai suoi hobby, nei giorni liberi dal lavoro.
Alle otto, Biagio Fiume uscì dall’edificio in compagnia di Virginia Monte. I due dovevano essere fidanzati perché stavano con la mano nella mano. Alterio Giorgio li aspettava già da una diecina di minuti, avendo fatto colazione al bar verso le sette e trenta. L’aria era serena con scarse nubi relegate ad oriente nel basso orizzonte. La gigantesca molecola s’innalzava come una mostruosa colonna con due scanalature spiraliformi, tra loro in parallelo. A volte, la strana formazione fumosa o nebbiosa era rigida come una colonna ed a volte sembrava ondeggiare e roteare intorno ad un asse immaginario come se fosse un lunghissimo nastro biancheggiante, smosso dalla brezza. I tre si avviarono lungo un sentiero sterrato che serpeggiando portava nella cavità del vulcano da cui si allungavano come enormi tentacoli fumosi le radici della Cosa. Alterio Giorgio disse: "Com’è strano. Sembra che la Cosa sia portatrice di luce. Entrandoci, sembriamo esserne illuminati. Invece, nella nebbia accade l’inverso. Se la nebbia è fitta non si vede da naso a naso."
Rispose Biagio Fiume che faceva strada: "La molecola è attivamente elettrica ed attraversata in continuazione da fotoni, derivanti dalla stella che illumina il pianeta e che noi indichiamo come Sole. Questa gigantesca molecola riceve energia termica dal Sole due, usando questo tipo d’energia per le funzioni di assemblaggio di materiale organico. Alcuni chiamano la stella col termine di Sole Due. Però, i fenomeni più sorprendenti avvengono alla base del DNA gigante."
"Perché chiamate DNA gigante questa Cosa?"
Rispose la donna: "Perché è una vera macromolecola di DNA, ma gigantesca. La sua struttura è identica a quella di una molecola di DNA. Vedi? Ci sono due cordoni che sono simili, considerando le differenze di proporzione. Sono identici ai due filamenti contrapposti che si avvolgono su se stessi, assumendo l’aspetto di una doppia elica. Solo che la doppia elica di questo DNA è lunga oltre i dieci chilometri. Capisci? È come se all’improvviso uscisse fuori una formica gigantesca in grado di lambire le nubi e la stratosfera."
"Essendo un DNA sia pure gigantesco, dovrebbe essere formato da tanti segmenti microscopici."
Rispose Biagio Fiume: "Questo DNA gigantesco è formato da innumerevoli segmenti che conosciamo col nome di nucleotidi. Dal punto di vista chimico, tutto è identico ad una macromolecola di DNA che sta all’interno delle nostre cellule."
"Ma come si è formata?"
"Non lo sappiamo. Non ne abbiamo la minima idea. Qualcuno parla di Dio, qualcuno di UFO. Ricordi le apparizioni degli UFO sulla Terra? Molti pensano che siano stati loro gli artefici. Altri parlano di campi elettrici creativi e si rifanno alle apparizioni dei fantasmi e di altri strani fenomeni che venivano osservati sulla Terra. Ma la cosa più interessante sta nel fondo del vulcano."
"Perché, che c’è?"
"Siamo quasi arrivati. Per fortuna, la bocca del vulcano non è profonda."
Quando il sentiero lo permetteva, Biagio Fiume e Virginia monte si tenevano per mano. La ragazza sui trent’anni aveva il corpo atletico, le spalle muscolose ed era piuttosto alta. Sottoterra, la luce non mancava perché filtrava attraverso le numerose fessure che venivano giù lungo i declivi della roccia. Scesero per altri dieci minuti e si trovarono nel fondo acciottolato della bocca vulcanica. Biagio Fiume disse: "Ci sono piccole grotte. Eccola lì una."
I tre si avvicinarono a osservare una di quelle aperture distanziate tra loro con frequenza regolare: una cinquantina di metri di distanza. Ogni apertura era come un tortuoso cunicolo largo circa un metro, una specie di piccola grotta, un condotto che sembrava scendere nelle viscere del vulcano. Biagio Fiume disse: "Ricordi? Ricordi alcuni concetti basilari di biologia? Almeno sulla Terra, il DNA era alla base della vita. Era una molecola microscopica in grado di attirare dall’ambiente liquido circostante atomi ionizzati in modo da duplicarsi, formando una nuova molecola a sé identica. Il processo di duplicazione era alla base della vita."
"Il fenomeno di duplicazione del DNA avviene grazie a fenomeni elettrici. Cariche negative che attirano dall’ambiente circostante cariche omologhe, ma in senso positivo."
"Lo stesso accade con questa macromolecola. Solo che il processo di duplicazione porta alla formazione di nuovi individui. Qualcuno dice che questa macromolecola è sacra."
Alterio Giorgio: "Vuoi dire che questa molecola gigante fa più o meno le stesse cose di un microscopico filamento di DNA, però invece di riformare molecole simili, forma corpi simili. Corpi di persone morte sulla Terra e rifatte qui in modo identico a com’erano stati, compreso i ricordi."
"Esatto. Vedi? La macromolecola gigante emette lunghi prolungamenti, simili a dei tentacoli. Ogni tentacolo entra in una di queste piccole grotte, in questi lunghi cunicoli, ramificandovisi. Abbiamo scoperto che percorrendo queste piccole grotte, ogni tentacolo raggiunge un fiume, od un lago sotterraneo. Ed è da lì che il DNA preleva, attraverso la forza elettrica insita nella sua struttura, le molecole, i sali e gli ioni che assembla per formare gl’individui. Naturalmente, segue le istruzioni che gl’inviamo tramite le schede ed i messaggi cifrati, come ti ho fatto vedere ieri. Prima che lo guidassimo noi, questo DNA risvegliava la gente, ma a caso, o secondo disegni che noi ignoriamo."
"Incredibile."
"Alcuni popoli primitivi sulla Terra lo avevano intuito. Per questo si cominciò a parlare di anima, di resurrezione, di culto dei morti e cose del genere."
Virginia Monte disse: "Ancora più incredibile è il fatto, scoperto dagli scienziati, che l’azione di assemblaggio del DNA – gigante segue le leggi della supersimmetria che sta alla base di questo mondo e secondo alcuni di tutti gli altri, Terra compresa."
"Ecco perché il DNA gigante ci assembla in modo perfetto, o quasi. Agisce secondo le stesse leggi che regolano l’universo super simmetrico."
"Lo fa in modo quasi perfetto. Diciamo per il 99,99%, visto che abbiamo alcuni tic, collegati alla sindrome da resurrezione. Tic e manie che sulla Terra non avevamo."
"Io indovino le marche dei vestiti, scarpe, orologi, camicie, maglioni e relativi prezzi."
La donna disse: "Una mia amica indovina che tipi di calza se donna o di calzini se uomo che uno porta addosso e relativo prezzo."
Biagio Fiume disse: "Conosco di una che sa tutte le marche delle coperte sui letti e relativi prezzi."
Alterio Giorgio volle commentare: "Tutto è mistero, sindrome da resurrezione compresa. Il commissario che mi ha accompagnato qui con la sua Maserati rosso rubino, secondo me ha una sindrome strana. Fa affiggere sui muri quadri di Rembrandt e di Caravaggio. Lo ha fatto nella stanza di ospedale dov’ero ricoverato."
"Non si tratta di una Sindrome. Oppure, si tratta di una sindrome che hanno solo alcuni della Commissione. Quelli della Commissione fanno affiggere spesso sui muri degli alberghi e degli uffici pubblici quadri di pittori di loro gusto. Quasi sempre si tratta di tele incorniciate, derivanti da pittori classici. Lo fanno per un fine preciso. Sembra che la visione di un Caravaggio, o di un Rembrandt, o di un artista affine rafforzi la volontà d’adesione a questa nuova realtà in cui siamo immersi."
Come per cambiare paragrafo, ma non capitolo, la donna disse: "Cosa è lo spazio, che cosa è il tempo? Che cosa è il vuoto?"
Alterio Giorgio disse: "Chi siamo noi? Chi siamo, visto che i nostri veri corpi sono in putrefazione sulla Terra?"
Biagio Fiume disse: "Io, da parte mia, considero il mio alter ego deposto in un cimitero della Terra come un mio diretto antenato. Un avo cui trarre rispetto. Un morto da rispettare ed in parte da venerare come facevano sulla Terra gli antichi Romani."
Virginia Monte disse la sua: "I Romani sono finiti coi loro falsi culti."
"Hanno molto da insegnare."
Virginia Monte: "Solo un Dio onnipotente disposto a parlarci potrebbe spiegarci cos’è il tempo. Forse questo dio è il Tempo stesso. Esistono infiniti trans finiti come Poincaré ammetteva. La caratteristica di queste entità infinite, comprendenti più infiniti potrebbe essere l’onnipotenza."
Biagio Fiume disse: "Supposizioni. Dobbiamo attenerci alla realtà scientifica."
Virginia Monte disse: "La realtà scientifica ci spinge verso le tenebre del mistero."
Biagio Fiume disse: "Abbiamo visto tutto ciò che c’era da vedere. E’ meglio tornare."
Alterio Giorgio aveva anche lui fretta. Disse: "Se ce la faccio, prima delle undici vorrei prendere il treno per la città. Vorrei andare a casa. Ci manco da una diecina di giorni."
Biagio Fiume: "Sono una ventina di minuti in salita. Non c’è problema."
Nello spiazzo antistante il Centro, si salutarono. Alterio Giorgio andò a prendere la valigetta da viaggio. Biagio Fiume e Virginia Monte lo aspettarono e lo accompagnarono con l’auto alla stazione. In treno, Alterio Giorgio si era seduto di fronte ad un trentenne. I due si erano scambiati i saluti di rito ed alcune frasi. L’uomo si chiamava Riccardo Saggio ed era stato resuscitato un anno prima. Era morto a Firenze nel 1983. Parlava fiorentino. Disse:
"Sulla Terra, avevo famiglia. Mia moglie morì due anni prima di me. Ho due figli lasciati lì, sulla Terra. E lei ha figli?"
"Uno. Anche lui è sulla Terra che invecchierà e morirà."
"Non si faccia prendere dalla malinconia. Occorre essere forti. Se siamo resuscitati, lo siamo per intervento divino. Solo Dio resuscita i morti, anche se desideravo che nostro Signore avesse fatto le cose meglio."
"Dio è amato, ma anche criticato."
"Poteva permettere il ricongiungimento familiare per quelli come me e come tanti altri con le mogli morte. Poteva resuscitare anche le mogli e se uno aveva un figlio morto, anche il figlio."
"Forse non è possibile. Forse non si può, forse la Legge qui lo vieta. Forse l’Eccelso non vuole, oppure non è stato l’artefice della nostra resurrezione, ma il caso."
"Solo Dio resuscita i morti, ma la Sua volontà è insondabile."
"Già."
"Già. Allora accontentiamoci. Ma la resurrezione per molti è un peso. Sradicati comunque siamo dalle nostre famiglie. C’è da sperare che se andremo in paradiso, ci rivedremo tutti."
Riccardo Saggio chiese: "Il suo curriculum è buono?"
"Ho parlato con un impiegato della Commissione. Mi ha detto che va e non va."
"Solo i preti hanno un ottimo curriculum, almeno i più."
"Qui di preti non ce ne sono."
Riccardo Saggio guardò fuori dal finestrino. Disse alla fine: "Strano."
Alterio Giorgio fece finta di non capire: "Cosa è strano?"
"Che non ci sono preti."
"Beh, accontentiamoci, comunque."
Guardando di nuovo fuori, quello disse: "Sì, è meglio."
Ci fu un breve silenzio. Dopo un poco quello disse: "Così dovrebbe essere. Ha ragione lei, non ci pensiamo. Non ci abbattiamo. Cerchiamo di non essere tristi. Affidiamoci tutti alla divina Provvidenza."
"Secondo me, una volta nati, dico nati sulla Terra, l’offesa più grande per un essere umano è sapere che si deve morire ed il corpo subire i processi della putrefazione."
"Uno può farsi cremare."
"Sì, ma dobbiamo finire. Questo è il problema. Il problema è la morte. Dobbiamo mettere fine alla vita. Le cose sono state create in modo imperfetto. Nessuno mi toglie dalla mente questa certezza: se esiste un dio, le cose sono state fatte in modo imperfetto."
"Lei dice che questo dio esiste perché deve correggere l’imperfezione ed il Male?"
"Come Giove che comandava sulle Erinni e su Nemesis, le dee del Male e della Vendetta."
Quello rise. Disse: "Lei ha fantasia. Per uno scienziato, la fantasia è l’arma vincente. La usi nelle prossime ricerche. Più dominiamo il DNA gigante e più siamo potenti."
Riccardo Saggio aveva accennato anche al DNA gigante. Forse era una spia della Commissione. Volevano sapere se Alterio Giorgio spifferasse tutto in giro? Alterio Giorgio fece capire all’interlocutore che voleva appisolarsi. L’ultima frase di Riccardo Saggio resisteva come un monito: le cose sono state fatte in modo imperfetto. Era a causa di questa imperfezione che in alcuni momenti si sentiva depresso e triste? Eterna imperfezione che accompagna l’esistenza.
Per il resto del viaggio si era messo a sonnecchiare, cercando di poggiare la testa sul bordo dello schienale, dal lato opposto alla cicatrice. Il treno super veloce quella domenica fu semivuoto. Aprendo e socchiudendo le palpebre, Alterio Giorgio osservò il mondo transeunte e senza rumore. Nuvole bianche e grigie, sprazzi di cielo, ondulazioni dell’altopiano e isole di neve per la campagna che cominciava ad inverdire. Pensò ad Elena Nube, ai suoi baci ed al suo sesso possente. Il legame alla nuova esistenza diveniva sempre più forte nella volontà di Alterio Giorgio. Bastava pensare ad Elena Nube ed il mondo rivelava tutta la sua sensualità ammaliatrice. Quanto prima, voleva fare sesso con lei.
Nella mente di Alterio Giorgio, proprio quanto meno se lo aspettava, improvvisi subentrarono altri ricordi. Ricordi di un’altra vita che lui non aveva vissuto in prima persona. Appartenevano al passato di Alterio Giorgio, morto sulla Terra. Eppure, quel passato riviveva in lui, perché era lui Alterio Giorgio ed erano suoi quei ricordi. Dialogava con la ex moglie prima che si lasciassero per sempre. Gli sembrò che stesse sognando, ma riviveva quei momenti come se fosse passato appena un giorno, o un’ora. Lui e lei erano in una camera di un appartamento. Forse era la casa di lui, forse una stanza d’albergo. Strano che Alterio Giorgio ricordasse nei particolari l’avvenimento, ma che non fosse sicuro dove fosse avvenuto se in una stanza d’albergo, o a casa sua. Erano cose che accadevano nella nuova esistenza, incongruenze gravi a cui bisognava abituarsi. Alterio Giorgio ricordava che era proprio lui. In quel preciso ricordo furtivo, c’era lui che s’era acceso una sigaretta. Le aveva detto senza convinzione: "Vattene... non essere ridicola. Vivi con un altro uomo e vieni qui a farmi delle scene di gelosia. Torna da lui e lasciami in pace!"
"Con te è diverso. Non so cosa ci stia capitando…"
"Naturalmente non lo sappiamo cosa ci stia capitando. Però le cose accadono."
"Lo sai anche tu come è potuto accaderci tutto questo. Io non sono felice... è accaduto e basta. Non so come…"
"Capita sempre così."
Alterio Giorgio ricordava che lei lo fissò. Quel suo sguardo dolce e malinconico: "Tu... tu sei sempre stato così sicuro. Sicuro da far diventare stupidi gli altri di fronte a questa tua sicurezza. La tua superficialità... Quante volte ti ho odiato! Ho bisogno di entusiasmo io, di carezze dolci... di qualcuno che sia pazzo per me. Di qualcuno che non possa vivere senza di me. Tu puoi vivere senza di me."
"Anche tu."
"Non mi sei mai stato vicino! Ho mentito, quando ti ho detto che era successo perché eri stato via due mesi. Sarebbe successo anche se fossi stato qui. Non ridere. Capisco la differenza, so tutto, so che l’altro con cui sto adesso non è intelligente, che non è come te, ma so che si strugge per me, che nulla fuor di me gl’importa, che a nulla pensa fuori che a me, che non vuole nulla all’infuori di me, ed è di questo che ho bisogno!"
Lei ansimava, si tratteneva dal pianto. Alterio Giorgio aveva preso una bottiglia di sciampagna.
Chiese: "E allora, perché sei venuta qui?"
Non rispose subito. Guardò a terra, alzò lo sguardo e lo fissò. Disse con debole voce: "Lo sai, perché me lo chiedi?"
Alterio Giorgio aveva riempito un bicchiere di spumante e glielo aveva porto. Lo guardò negli occhi.
Disse: "Non ho voglia di bere, Giorgio, chi era quella donna?"
Non se la sentiva di mentire: "Una paziente. Una poveretta gravemente ammalata."
"Non è vero. Trova una bugia migliore. Una donna gravemente ammalata va in ospedale. Non in un locale notturno."
Alterio Giorgio aveva riposto il bicchiere vuoto. Pensò che a volte, la verità sembra così inverosimile.
"È vero."
"La ami?"
" Che cosa te ne importa?"
"La ami?"
" Ma che cosa te ne importa, Giovanna?""Così, tanto per dire: finché non ami nessuno ..." E si fermò.
" Prima ne hai parlato come di una puttana. Che c’entra, allora, l’amore?"
"Ho parlato così tanto per parlare. Ho capito subito che non era una donnaccia, una di quelle… Perciò l’ho detto. Per una puttana non sarei venuta. La ami?"
"Chiudi la luce e vattene."
Gli si era avvicinata. Ricordava le cose come adesso. Rivedeva come adesso i suoi occhi indagatori di donna ancora gelosa di lui: "Lo sapevo. L’ho capito che l’ami."
Si stava arrabbiando: "Va’ al diavolo, Sono stanco. Va’ al diavolo, tu e il tuo indovinello da quattro soldi, che credi sia qualcosa di straordinario: un uomo per l’ebbrezza, i cinque minuti d’amore o la carriera; un altro, al quale dichiarare che lo si ama in modo diverso e più profondo, un piccolo porto per l’intermezzo. Vai al diavolo: troppe specialità di amore, variazioni sullo stesso tema hai, per i miei gusti."
"Non è vero. Non è come tu dici. È diverso. Non è vero. Io voglio tornare da te. Io tornerò da te."
Come se fosse adesso, Alterio Giorgio ricordava bene che aveva riempito di nuovo il bicchiere. Il suo ragionamento la incalzava: "Può darsi che tu lo voglia. Ma è un’illusione. Un’illusione che ti crei tu stessa, purtroppo, per tirare avanti. Tu non tornerai mai, tu."
" Sì che tornerò."
"No. E, se anche tornassi, sarebbe per breve tempo. Poi, ci sarebbe daccapo un altro uomo che non vuole che te, solo te, e così via, all’infinito. Un avvenire entusiasmante, per il sottoscritto!"
" No, no! Io rimarrò con te."
Alterio Giorgio si ricordava d’aver riso in quel momento. Le aveva detto con tenerezza: "Mia cara, non ci rimarrai. Non si può imprigionare il vento. E neppure l’acqua. Imputridiscono, ad imprigionarli, Non sei fatta per fermarti, Giovanna"
"Neppure tu."
"Io?"
Aveva vuotato il bicchiere. Si erano lasciati, infine... per sempre.
"Siamo arrivati. Siamo in stazione."
Gli aveva detto il passeggero a lui di fronte. Alterio Giorgio si era scosso dai suoi ricordi. I ricordi melmosi ed appiccicosi di una remota vita che forse gli apparteneva, o forse era stata di un altro individuo, adesso morto e stramorto. Ricordi vaganti nell’etere che come da una finestra aperta, entravano in lui, nelle sue circonvoluzioni cerebrali. Disse grazie al passeggero che lo aveva svegliato e con cui aveva conversato. Il passeggero che di nome faceva Riccardo Saggio, quarantenne, o quasi.
I due si erano alzati per prelevare i rispettivi bagagli mentre il treno si era fermato al capolinea.
Verso le tredici, fu nella stazione della sua città e col taxi andò a casa. Tutto come prima. Forse avrebbe lasciato l’appartamento. Gli dispiaceva abbandonare lo studio da fotografo nella grotta sottoterra. Decise di ripensarci. Prese la migliore macchina fotografica, i rullini ultrasensibili, lo zoom ed altro. Mise tutto in una valigia. Prese i vestiti, le cinture, l’orologio Cartier, calzini ed un paio di scarpe. Il bagaglio era pesante. In più, c’era la valigia per i vestiti. Pensò di nuovo ad Elena Nube. Il desiderio di lei era troppo pressante e come onda di maroso sbatteva contro gli scogli della sua volontà, nel profondo schiva alla nuova esistenza. Forse poteva accompagnarlo con la macchina fino alla stazione, o forse fino al Centro. Elena Nube fu lieta di udire la sua voce. Mostrò meraviglia, ma poi disse che era molto felice di rivederlo. Anzi, disse che non aspettava altro. Lui disse: "Lo stesso per me, amore."
"Telefono al capo e mi prendo un po’ di ferie. Aspettami che arrivo prima che posso."
"Ti amo."
"Penso di amarti anch’io."
"Tu sei il mio angelo. Tu mi hai salvato. Adesso, il tuo amore mi dà forza di vivere."
Arrivò subito con la macchina. Si baciarono sulle labbra, sotto lo stipite d’ingresso. Nell’androne di casa, altro bacio tenero e prolungato stiramento di lingua e labbra lungo le rispettive guance. Alterio Giorgio sentiva il caldo alito di lei sfiorargli il padiglione auricolare. Sentiva la dolcezza del suo abbraccio delicato lungo la schiena. La ragazza aveva evitato di stringergli la nuca dov’era la medicazione. Se non fosse per quelle fitte improvvise alla nuca, avrebbe continuato a baciarla all’infinito. Aveva portato le mani lungo gli elastici fianchi di lei e l’accarezzò, risalendo con le dita sotto il suo seno. Andarono infine in salotto. Le fece un caffè e lei si accomodò con le cosce accavallate sul divano di fronte al camino spento. Alterio Giorgio si era seduto sul divano di lato, disse: "Mi sei mancata."
"Anche tu. Mi sembra di amarti."
Stettero ad osservarsi. Lei era molto bella. Indubbiamente, piaceva agli uomini. Femminilità giovane con tette toste e curve ai giusti posti. Poi, era bella. Pelle bruna ed occhi azzurri con capelli che spesso raccoglieva in un tupé alla nuca, facendo risaltare il collo da giraffa. Elena Nube aveva detto di amarlo. Lo aveva guardato solennemente negli occhi. Domanda: "Non mi baci di nuovo?"
Caldo bacio senza fine. Tutto ciò rasserenava Alterio Giorgio che disse: "Allora, mi puoi accompagnare più tardi al Centro dove sono stato assunto?"
"Il Centro di biologia e geotermia? È abbastanza lontano. Per te, però ne vale la pena."
Era troppo presto per ripartire e Alterio Giorgio pensò di osare. La marcò stretta e la baciò di nuovo. Fu un lungo bacio che poteva voler dire anche amore. Poteva voler dire: voglio fare sesso con te. Poteva voler dire: mi piaci tutta. Poteva voler dire: con te starei per sempre fino all’eternità. Poteva voler dire tante altre cose erotiche e piene di sentimento. Andarono a denudarsi in camera da letto e scoparono. Elena Nube era statuaria e si vedeva che il suo corpo era di una che fa atletica: muscoli col giusto tono e non un filo di cellulite. Aveva sì e no 22 – 24 anni. Lei gli si era stesa di lato e lui cominciò a baciarla dappertutto. La fece girare di schiena e cominciò a leccarle la pelle partendo dal basso in alto, dalla confluenza delle natiche fin verso la nuca. Elena Nube gemeva di piacere e si sollevò i capelli dal collo. Lui le leccò per intero la nuca; lei si girò con le cosce divaricate, vogliosa dei suoi baci e del cazzo. Alterio Giorgio la penetrò tutta e le arrivò subito dentro. Però, bevvero un succo di frutta ed iniziarono di nuovo a scopare. Questa volta, Alterio Giorgio la penetrò da dietro, standole sopra che lei gli volgeva le spalle. Poi la penetrò in ano. Lei inarcò la colonna vertebrale, gemette, lasciandolo fare. Si lavarono e tornarono a letto per scopare questa volta in modo regolare, più o meno. Lei si era messa su di lui a cavalcioni e dopo gli si era distesa sotto. C’era perfetta intesa di sensi. Riuscirono a scopare tante volte, grazie alla nuova pillola virile ultratombale più potente della terrestre Viagra. Era pomeriggio inoltrato e sulle strade calava l’umido, mentre dal fiume si levavano lingue di nebbia. Elena Nube disse: "Amore, amore mio, è meglio andare. Se no, faccio tardi per il ritorno."
Caricarono la macchina e partirono. C’era da oltrepassare la catena montuosa che delimitava la città verso sud. C’era da raggiungere l’altopiano grande come la regione Sicilia con al centro il basso ciglio vulcanico. Minimo tre ore. In seguito alle favolose scopate, Alterio Giorgio vedeva le cose in modo meno tragico. Dentro sentiva tutto un bollore, simile a quello sui venti anni terrestri, quando si ama per davvero una ragazza. Amore nascente? La ragazza gli piaceva e si sarebbero visti spesso. Però, lavoravano molto distanti l’uno dall’altro. Alterio Giorgio disse: "L’amore vince tutto, è vero?"
"Ti riferisci alla nostre distanze chilometriche, vero?"
"Tu in città ed io alle ciglia di un vulcano, a tre ore di macchina da te."
"Beh, non è una tragedia."
"Supereremo queste avversità. Ti amo. Elena ti amo."
"Amore, io non so stare senza di te. Mi sei piaciuto appena ti ho tirato su dalle acque gelide del fiume."
Si scrutavano in macchina lanciandosi sguardi vogliosi. Alterio Giorgio volle parlare di altro: "Cosa facevi sulla Terra?"
"Ero nei nuclei di pronto soccorso alpino della polizia. A venti anni, avevo vinto anche la coppa di Miss Regione Lazio."
"Avresti dovuto vincere quella di miss Italia."
"Sui ventiquattro anni, ebbi un incidente di moto ed entrai in coma. Per sette mesi, stetti in coma profondo e poi morii. Mi trovai resuscitata qui un paio di anni fa. Uscii dalla caverna da cui fuoriescono tutti i resuscitati. La conosci? È dove lavori tu."
"E’ la caverna dei resuscitati, così la chiamano. Sta alla base delle falde vulcaniche. Il Centro è sul ciglio dello stesso vulcano. Io lavoro presso il Centro di Ricerca in Biologia. Il Centro è quello sul ciglio del vulcano."
"Mi hanno detto che avrò per sempre l’età con cui sono stata resuscitata: ventiquattro anni per la bellezza di centosessant’anni circa."
"Tutto sommato, se qui si è fortunati, si vive bene. Godiamoci le bellezze di questa nuova vita."
"Penso di amarti per davvero, Alterio Giorgio."
"Ci ameremo finché durerà questa nostra sopravvivenza. Ci ameremo in un eterno presente, non rovinato dagli acciacchi degli anni. Ci ameremo con la foga dei venti anni."
Era crepuscolo inoltrato e dense ombre miste a plananti lingue di nebbia salivano dalle vallate, rigate da rumorosi torrenti. Le creste più alte della cordigliera ancora coperte di neve. Doveva arrivare la primavera inoltrata, o l’estate perché anche le vette fossero libere dal ghiaccio. Il verde rigoglioso sui bassi dorsali e sui tondi colli s’imponeva nei boschi, ancora in parte spogli. Elena Nube emanava un delicato profumo di rose che sembrava stordire. Sciolto il codino, aveva la folta chioma scura, fluente alle spalle come una selvaggia, una ribelle. Alterio Giorgio glielo disse: "Secondo me, staresti meglio coi capelli neri. Sembreresti un’amazzone selvaggia."
"Una ribelle. Qui è inutile ribellarsi e poi ribellarsi a che?"
In casa di Alterio Giorgio, Elena Nube aveva indossato nuovi abiti che si era portata appresso in macchina. Adesso, si era tolta il cappotto in pelliccia con cintura metallica Dolce & Gabbana. Aveva una corta gonna in mohair tartan Jean Paul Gaultier a quadri rossa, lunghi collant neri, stivali Philosophy di Alberta Ferretti e maglia in jersey color ferro con ricami geometrici in argento. Alterio Giorgio le aveva detto uscendo di casa: "Ti sai vestire, hai gusto."
"Vestire con abiti di alta moda ti rende importante e sembri un’altra."
Oltrepassata la catena montuosa, l’autostrada aveva cominciato la discesa verso l’altopiano. Il cielo s’incupiva, ma non c’erano nubi. Il cielo era una cupola di un azzurro molto intenso, un cobalto carico che sfuocava ad occidente dov’era calato l’astro ardente intorno al quale roteava il pianeta. Come si è detto, qualcuno lo aveva chiamato Sole Due. Elena Nube disse: "Secondo te, cosa è quella specie di fumarola che fuoriesce dalla bocca del vulcano dove lavori? Notai quel lungo pennacchio per la prima volta quando uscii dalla grotta alla base del vulcano. Uscii in qualità di resuscitata e sollevai lo sguardo. Lo fanno in molti. E’ un vulcano attivo? Per voi del Centro non c’è pericolo?"
"Non c’è pericolo. E’ una specie di fumarola geotermica. Il Centro sta studiando come poter sfruttare nel miglior modo possibile quella grande fonte energetica."
"Secondo me, ha a che fare con le nostre resurrezioni."
"Come fai a dirlo?"
"Non lo dico solo io, sono in molti ad affermarlo. Essendo la grotta da cui si resuscita attigua alla fumarola, un nesso ci dev’essere. Forse c’è un trasferimento di energia."
"Potrebbe anche darsi, ma gli scienziati del Centro dicono che non c’è alcun nesso, almeno apparente."
"Alcuni dicono che la Commissione ci riempie di fesserie, come i curriculum ch’elabora in base ai quali dovremmo meritare, o l’inferno, o il paradiso."
Alterio Giorgio volle parlare di altro: "Allora, quando ci vediamo?"
"Quando vuoi."
"Sarò libero per il fine settimana, dal venerdì pomeriggio al lunedì mattina. Vengo io da te col treno. La stazione è vicina al Centro. Il treno impiega meno di due ore ad arrivare alla città."
"Al ritorno, ti riaccompagnerò io con la macchina."
La carreggiata a tripla fila era rettilinea, percorrendo il vasto altopiano. Adesso, era sera e nel terso cielo splendevano grappoli di stelle. Alterio Giorgio disse: "E’ strano come tutto rassomigli alla Terra. Chissà dove siamo, in quale parte dell’universo, oppure ci troviamo in un universo identico al precedente, ma in parallelo. Chissà a quanti miliardi di anni luce siamo dalla Terra, eppure tutto sembra uguale. Tutto in una eterna ripetizione."
"Che ci vuoi fare. Siamo resuscitati qui. Se siamo resuscitati, significa ch’esiste un dio. Un dio che ci guarda, ovunque siamo. Lo stesso dio che dovrebbe sorvegliare sui destini di quelli che vivono sulla Terra. Se viviamo di nuovo, ci dev’essere un perché."
"Fermiamoci al prossimo motel, che dici? Ceniamo strada facendo. Tanto, non c’è fretta."
Erano appena le venti. In lontananza, alcuni fari giallognoli. Avvicinandosi, videro le insegne di un benzinaio e in fondo, le luci accese di un motel. Motel – albergo – ristorante INSEGNE NUOVE.
Elena Nube fece benzina e poi sostarono davanti al motel. C’erano dei camion e un pullman di turisti. Prima di uscire, Alterio Giorgio aveva indossato il lungo cappotto nero di lana trattata, con cappuccio e cintura. Si era pettinato i lunghi capelli neri e lisci con la riga a sinistra e li aveva tenuti aderenti in testa con della lacca che li rendeva innaturalmente lucidi. Cercò di non farsi male alla nuca. Adesso, l’estremità dei lunghi capelli, aderenti al cranio, copriva in parte la medicazione. Tutto sommato aveva il colorito normale, non più di un degente anemico.
Si sedettero dietro ad un tavolo, accanto ad una finestra. C’era una grossa vampa che dava calore da dentro a un gigantesco camino. Dal lato opposto, il lungo bancone della cassa e della reception. Alcuni tavoli erano occupati dai camionisti che avevano parcheggiato i TIR nello spiazzo antistante. C’era anche la comitiva di turisti, una ventina di persone. Alterio Giorgio osservò che nessuno aveva i capelli grigi, o bianchi. Tutti in eterna gioventù o semigioventù, almeno per un secolo e mezzo. Una proroga d’esistenza. Oltre i vetri, il mondo statico in un panico silenzio. La ragazza si scosse come se avesse avuto un fremito di freddo. Nel mondo statico, impercettibile il giorno s’immergeva nelle fredde tenebre notturne. C’era angoscia nel tempo presente. Dalla precedente esistenza, Alterio Giorgio si portava appresso quella sensazione di angoscia improvvisa. Incredibile che sentisse la stessa, improvvisa sensazione d’angoscia. Dopotutto, era un duplicato di se stesso, quindi anche l’angoscia che all’improvviso l’assaliva era una derivata, ma comunque angoscia a tutti i titoli. C’era la stasi di una eterna attesa. Il televisore in alto, di lato al camino trasmetteva un colloquio tra uno della Commissione ed un uomo del popolo. Alterio Giorgio riuscì a decifrare solo una frase in modo chiaro. L’uomo della Commissione aveva detto: seguite le direttive della Commissione e nella seconda resurrezione non avrete problemi.
Era venuto il cameriere, un worker sui venti anni ed aveva portato il menù. Avevano preso degli antipasti e dei secondi a base di carne. Alterio Giorgio l’aveva vista preoccupata.
Disse: "Sei triste."
Rispose: "Tu sei triste."
"Anche tu un poco."
"Mi preoccupa il ritorno. È un’autostrada completamente deserta di notte."
"Allora passiamo la notte qui e ripartiamo domani mattina presto. Io devo stare al Centro per le nove. Va bene?"
"Io però devo essere di ritorno in città per le nove e mezza, ma posso telefonare. Domani vado al lavoro dopo mezzogiorno. Recupererò nei prossimi giorni. Non ci sono problemi."
La vampa dava rossicci bagliori nelle iridi di Elena Nube. Adesso, si vedeva che sorrideva. Stare con lui dopotutto la rassicurava e divertiva. Chiesero se ci fosse una camera libera per due. L’albergatore disse di sì. Alterio Giorgio andò a prelevare i bagagli dal cofano. Lei era rimasta accanto al focolare e guardava la tivù. Prima di uscire, Alterio Giorgio si era chiuso il cappotto. La sera molto rigida da quelle parti, con aria pungente che arrossava le narici. Oltre lo spiazzo, di lato a dov’era parcheggiata la macchina c’era un placido rivolo d’acqua scura, forse un canalone di sfogo, o la diramazione di una fiumana. Sui bordi del canalone, fitti cespi di erba, salici rossi, vimini e felci piegate sull’acqua corrente. Folate di vento modulavano striduli suoni tra la folta vegetazione. Fu allora che sprazzi di vita passata si fecero strada nei ricordi di Alterio Giorgio. Pensò agli ultimi mesi di vita. Fu certo di morire quando vide che gli mancavano le forze per salire e scendere le scale di casa. Aveva subito due operazioni alle carotidi con intubazione e fu certo che non poteva sperare di vivere ancora per anni, ma ne aveva se tutto fosse andato bene, ne aveva per pochi mesi. La morte inevitabile e nera. Il fisico spossato cedeva in una stanza semibuia di ospedale. Prima la lenta vecchiaia e poi la vita estrema fatta d’interventi chirurgici, anestesie e iniezioni di antibiotici mentre tutto franava verso la morte. Mai avrebbe pensato di resuscitare in un nuovo pianeta, con nuova esistenza. Tutto così strano. Solo l’amore di Elena Nube lo stava travolgendo. La sua esistenza rinnovata dalle fiamme dell’amore nascente. Solo questo amore aveva la garanzia dell’autenticità. Ma le singolarità irruppero di nuovo improvvise. Vide, o volle vedere, o fu la temperatura lì fuori e la vasocostrizione cerebrale da freddo: si rese conto come gli striduli rumori e i cupi suoni della natura modulati dal vento che a tratti spirava si potessero trasformare in lugubri richiami. Vide, o volle vedere sulla riva opposta della fiumana una folla anemica di gente con orbite infossate, carni pallide e macilente, guance scavate. Una folla senza corpo e senza ossa che lo guardava muta. Una folla di morti che l’osservava, non osando chiedergli niente. Cadaveri staccati dalla vita e privi di materia. La Morte. Ecco che alla fine cosa rimane. C’è il decesso del proprio corpo, la stasi assoluta e la putrefazione della carne. Quale il vero mondo? Immagini straripate da se stesso. Fantasmi emergenti dall’anima sfatta. La sua anima scissa. Enigmatiche realtà si svelavano dall’interno della sua rinnovata esistenza. Di corsa, Alterio Giorgio rientrò coi bagagli in albergo ed andò a posizionarli in camera. Volle guardare di nuovo il mondo buio dalla finestra della camera. Tutto taceva e la fiumana dava deboli riverberi. Scendendo di nuovo, udì uno dei camionisti che gridava: "Il paradiso è qui. Sulla Terra dovetti patire solo fame e povertà. Adesso, ho una paga che è il triplo di quanto prendevo sulla Terra. Posso vivere il triplo e divertirmi quanto voglio."
I suoi amici ridevano e trangugiavano il vino della striscia equatoriale. Alterio Giorgio si mise a riflettere: "C’è gente che pensa di essere sempre felice. Forse lo pensava anche sulla Terra."
Seduti uno di lato all’altro, dietro il tavolo del ristorante – bar, Alterio Giorgio ebbe l’impressione benevola che Elena Nube avesse la faccia di un’adolescente entusiasta. Lei disse, tanto per dire: "Questo posto è bello, tutto sommato."
Mentre parlava, le guardava le labbra rosse e lisce. Il cuore a martellargli furiosamente.
Lui chiese: "Perché ti ho incontrato solo adesso?"
Osservandola negli occhi le disse: "Ti amo."
"Anch’io ti amo."
Elena Nube si raddrizzò sulla schiena, sollevò una mano fredda perché aveva stretto il bicchiere con del vino, gli avvicinò la testa senza fargli male alla nuca e premette le labbra su quelle di lui. La sua bocca era umida e calda ed Alterio Giorgio se la sentì per tutta la schiena. Il dolore alla nuca, scomparso del tutto. Staccandosi lei disse: "Ecco."
Alterio Giorgio era rimasto immobile. Lei si ritrasse. Affondò nella sedia imbottita, spostandosi un po’ indietro, ad una certa distanza dal tavolo. Con un gesto automatico e femminile, allungò una mano per sollevare la gonna ed accavallò le cosce. Alterio Giorgio colse il momento in cui lei le accavallò. Per pochi attimi, vide la lucentezza della calza sul piatto della coscia da sotto la gonna risalita oltre le ginocchia. Lei sollevò gli occhi azzurri verso di lui e fu come se si spalancasse un cielo luminoso, come in certe giornate di primavera sulla Terra. Elena Nube sapeva dove la stava guardando e voleva che lo sapesse. Non si scompose. Trattenne il fiato, inarcò la schiena, portò le braccia indietro e facendo leva con le mani sui bordi della sedia, sollevò il pingue seno. Rivolse di nuovo la sua attenzione a lui che le stava di lato, a novanta gradi di lato. Dagli occhi di lei, azzurrini riflessi. Una oscura furia profonda aveva trasportato di peso in una nuova dimensione dove Alterio Giorgio poteva godere le gioie della nuova esistenza.
C’era un piano bar. Un trentenne con giacca e pantaloni di lana grigio-scuro, camicia di cotone chiara Max Mara: tutto sommato mille euro ultratombali, si era seduto al piano bar. Aveva acceso il computer che accompagnava le canzoni da cantare, acceso il microfono. Subito dopo si era alzata da un tavolo nell’angolo ed in penombra una giovane donna sorridente, molto bella, alta e coi capelli neri corvini, tirati alla nuca con un tupé. La donna aveva la pelle chiara e gli occhi neri. Lungo collo da giraffa. Sembrava una spagnola resuscitata, o una del sud Europa anche se la pelle non era bruna. Poteva essere anche francese. Un lungo scialle nero come una larga mantiglia le ricopriva spalle e dorso. Aveva il pesante maglione di lana tartan alla dolce vita anche nero e la gonna lunga fino alle caviglie Dolce & Gabbana: 3000 euro ultratombali, complessivamente (mantiglia compresa). Delimitate con un leggero tocco di matita, le labbra della cantante erano pittate con un rossetto fuxia. Gli occhi allungati a mandorla. Al collo, una collana a doppia catena in acciaio, trattamento IP oro, tempestata di perle color rubino e con un pendente di corallo rosso. Totale: 1200 euro ultratombali. Gli orecchini a grappolo d’uva erano di oro 18 carati e adornati di sferette di rubino ad acino d’uva: 900 euro ultratombali (con sconto al 10%). La bellezza della donna era eccezionale. Poteva avere sui venti – ventiquattro anni. Non di più. Il pianista si lisciò i lunghi capelli neri, aprì lo spartito e diede inizio alla musica. La donna cantò per prima una vecchia canzone romantica terrena: Un amore così grande. La voce melodiosa da soprano come della terrena Maria Callas. Tutti tacquero. La cantante doveva essere stata una professionista nell’altra vita. Tutti osservavano la donna incantati. Uno spense la tivù. Alterio Giorgio era commosso e guardò negli occhi Elena Nube che ogni tanto sorseggiava vino e ascoltava la canzone, anche lei cogli occhi lucidi di pianto. Alterio Giorgio volle immaginarsi attorno all’albero di mandorlo pieno di fiori bianchi in primavera che una volta cresceva nel suo giardino sulla Terra. Intorno al tronco, c’era lui ed Elena Nube che si baciavano. Elena Nube immaginò di trovarsi sul bagnasciuga di una grande spiaggia deserta dei Carabi (sulla Terra), di stringere la mano di Alterio Giorgio e di baciarsi al chiarore della luna piena. Il canto sublime terminò come quei sogni furtivi. Un amore così grande... un amore che travalica lo spazio ed il tempo... Mistica marea… La muta sospensione dei respiri. Il morso del presente che divora a poco a poco il cuore. Riaffiorarono giorni... sere e notti di un maggio odoroso. Scintille sprigionate dal una vampa mai spenta.
Il cameriere - worker si avvicinò al loro tavolo e domandò: "Altro vino?"
"Sì, e tu cosa vuoi?"
La ragazza disse: "Anch’io."
"Ti piace?"
"La canzone?"
Fece cenno di sì con la testa. Disse poi: "Mi ricorda tante cose confuse."
Alterio Giorgio bevve il bicchiere di vino rosso d’un fiato e la guardò. Le sopracciglia alte, lo sguardo distante nonostante tutto, la bocca carnosa. Ciò che era sembrato scialbo e dimesso si era d’un tratto raccolto in un viso luminoso e pieno di mistero, in un viso tanto più misterioso quanto più aperto. Non nascondeva nulla e non offriva nulla, quel volto. Ed io che non l’ho visto, pensò lui. La sua bellezza era offuscata dalla disperazione e dalla paura? Alterio Giorgio si era chiesto: "Quale disperazione, la mia o la sua, o di entrambi?
Si era accesa una sigaretta e fumava tranquillamente come immersa nel fumo. La canzone era finita da parecchio, ma non se n’erano accorti. La ragazza si era guardata attorno. Qualcuno resisteva ancora dietro il suo tavolino come una barca attraccata alla sicura riva. Qualcuno stava appoggiato al bancone poco distante dal barista. Elena Nube disse: "Bene, allora vogliamo andare su?"
Lui fece cenno di sì.
Nella camera, si era subito spogliata restando col reggiseno e lo slip. Alterio Giorgio guardò di sfuggita tra le cosce di lei ed intravide il colore scuro dei peli vulvari, attraverso lo slip merlettato. Era andata in toilette e subito dopo era uscita mettendosi di fronte a lui senza dire niente. Il suo corpo aveva le armonie di una statua come nei musei che riproducevano le opere degli antichi sulla Terra. Una statua di Fidia, di Prassitele, di Lisippo. Una statua, dove ogni curva era armoniosa e dolce. Una statua in carne ed ossa anche se lei l’osservava senza parlare. A cosa stava pensando? Lui era ancora vestito e si sentiva tutto accaldato. Nel riflesso del lume sopra il comò, gli occhi di Elena Nube brillavano. Si poteva guardare attraverso quegli occhi come se non finissero mai.
Alterio Giorgio disse: "Sei bellissima. Amore, sei bellissima."
Lei lo osservava con una strana serietà. Dissi alla fine: "Sei l’uomo che sempre cercavo."
Alterio Giorgio sentì l’onda leggera del suo respiro. Invisibile entrava dentro di lui, dolce, senza peso, fiduciosa, una creatura estranea nella notte estranea. Percepì di colpo il proprio sangue come flusso irrefrenabile e caldo. Veniva, veniva... era qualcosa di più: vita, mille volte disprezzata e mille benedetta, persa e riconquistata. Un’ora prima pesante, impetuosa, prossima al misterioso momento al quale non aveva creduto più. Il momento in cui si diventa di nuovo il primo uomo sulla riva del mare. Dalle onde sale, bianca e luminosa, una domanda ed una risposta nello stesso momento. Sale, sale la tempesta... Gli disse, sussurrando: "Abbracciami."
La guardò in viso le la strinse a sé. Le sue spalle calde e nude gli vennero incontro come una nave che cerca rifugio in un porto sicuro. La baciò. Le sue labbra cedevano e la sua calda bocca si apriva alla sua fiamma. Le ficcò la verga calda del pene tra le cosce. Lei si fece penetrare emettendo un breve fremito di piacere ed osservando negli occhi il suo piacere in quell’istante. Passarono la notte abbracciati godendo dei loro caldi, giovani, rinnovati corpi e facendo sesso a volontà. Fiamme di luce erano i baci di Elena Nube ed il suo sesso emanava la voglia intensa della perdizione, oltre ogni limite. I loro amplessi avevano per sempre allontanato il nuovo fluire del tempo. La carne di lei si arrendeva e si apriva in ogni sua calda profondità. Lui la leccò dalle natiche fin nella radice dei capelli alla nuca e poi di nuovo giù, ad intrufolare l’umida lingua nel cunicolo vulvare, assaporando le profondità del suo giovane corpo. La udiva gemere e fremere sotto di sé, mentre entrava in lei e la riempiva di sperma. Caldo ed oleoso sperma entrava in lei fino all’imbocco uterino. Caldi e famelici baci laceravano la stasi notturna, carezze ed abbracci e odore di calda pelle, e sapore dei reciproci corpi accaldati nei riti di Eros. Se non fosse stata per la sveglia la mattina presto, avrebbero continuato a dormire ancora per molto. Il più premuroso fu lui temendo di fare tardi. Era il secondo giorno di lavoro al Centro e non voleva dare una brutta impressione. Mentre stava in toilette, Alterio Giorgio si era vestito ed osservava il mondo dai vetri del terrazzino. Il sole stava sorgendo e con vasto splendore si apprestava a dominare il mondo. Adesso, lei si specchiava e si truccava. Elena Nube, la sua dea, il suo idolo, la dea madre, fonte inesauribile di sesso. Alterio Giorgio osservò il paesaggio.
Stormi di uccelli neri con lunghi e massicci becchi si erano posati sullo spiazzo davanti all’hotel. Altri volteggiavano in aria, ma senza rumore. Sembravano corvi. Corvi dell’aldilà, pensò sorridendo. Anche nell’aldilà avrebbero simboleggiato la morte. Corvi neri, corvi di malaugurio.
Lo strano vuoto del senso del poi. Il letto che non dice più nulla. L’oggi che strappa via l’inesorabile ieri come il vento le foglie. Il paesaggio scarno magicamente scomparso nel buio, ed ora piatto all’infinito, non più un miraggio nel deserto delle ore…
Contrastanti sentimenti. Incredibile. Adesso che era certo che Elena Nube lo amava, cominciava ad essere triste. Cos’era il futuro in quel mondo, in quel mondo dove la sua esistenza era stata catapultata? Disse tra sé e sé: il Tempo... cavaliere invisibile... man mano che passa il Tempo impari cosa avresti dovuto sapere e fare nel tempo che precede questa nuova vita. Il tempo del trapassato remoto quello di Alterio Giorgio vissuto e morto sulla Terra. Non è una beffa. E’ forse questo il senso del Tempo, la sua vera identità.
Alterio Giorgio cercava una valida ragione che lo sollevasse dai dubbi e gli desse un filo di speranza. Chiuse gli occhi. Ci vuole tempo per vivere. Come ogni opera d’arte, la vita esige lunghe riflessioni. Alterio Giorgio lasciava vagare il fluttuante smarrimento e il profondo sconforto anche se aveva sempre sperato in una vita felice. Adesso, sperava ancora. Sperava nella felicità negatagli sulla Terra. Forse, Elena Nube lo avrebbe aiutato ad avere una nuova vita, davvero nuova e felice. La pianura si estendeva a perdita d’occhio, senza un vero albero. Lo aveva notato solo adesso. C’erano siepi e mortelle, ma non c’erano grossi tronchi di alberi. Altri uccelli neri si erano aggiunti ai precedenti, formando come uno scuro pantano. Gli venne il dubbio che fosse solo un mondo desolato, ingrato e vuoto in cui finalmente trovava se stesso. Ma chi era in realtà? Ritornare a vivere come per incanto, senza un vero perché. Ritornare ad amare, a soffrire come per rivincita. Ritornare a vivere coi ricordi frammentari delle precedente vita. Ritornare a vivere come una copia di se stesso. Ritornare a vivere in quel gelido pianeta, imperfetta copia anch’esso della Terra. Tutto sommato, meglio la copia imperfetta che la Terra brulicante di gente, di veleni di ogni tipo e di violenza incontrollabile. Meglio la Commissione che le dittature terrestri. Sulla Terra c’era gente che moriva di fame... Dalla toilette gli disse: "Sono quasi pronta."
Uscì sorridente. Alterio Giorgio fu certo che la sua esistenza aveva bisogno di quel sorriso e di quella donna. Se lo avesse lasciato, sarebbe tornata in lui la malinconia atroce che lo avrebbe definitivamente travolto. Era fragile, tutto in lui si arrendeva. L’amore gli avrebbe dato quel calore, quel magico flusso, indispensabile ad illuderlo ancora. L’amore reciproco li rendeva unici. Fecero colazione nella hall. Poi lui andò a pagare il conto. Chiese all’albergatore quanto distasse il Centro. Quello disse: "Circa un’ora."
Usciti nello spiazzo dov’era parcheggiata l’auto, Elena Nube disse: "Che uccelli sono?"
Alcuni volatili si erano messi a svolazzare nei paraggi e gracchiavano nella fissità del cielo. La maggior parte erano fissi come statuine dipinte di nero. Ma tutto a quell’ora era fisso. La natura taceva in attesa che il giorno avanzasse. Alterio Giorgio spiegò: "Portano male. Sono simili ai corvi terrestri. Stanno lì perché col becco scavano e si nutrono di vermi."
"In città non se ne vedono. Ho vaghi ricordi. Sulla Terra, quando andavo dai nonni in campagna li vedevo volteggiare sulla vallata."
Erano arrivati nello spiazzo antistante il Centro prima delle otto. La gialla luce del sole sorgente si spandeva sull’asfalto ai lati del quale era stata ammassata la neve dei giorni scorsi. Scesero dall’auto. Elena Nube volle osservare il gambo di nebbia che si elevava in cielo dalla bocca del vulcano. Disse: "Cose mai viste prima. Sulla Terra, non esisteva una cosa del genere. Sembra che si avviti in cielo."
Elena Nube aveva girato la testa in su più che poté, allungando ed inarcando il collo. Si reggeva alla ringhiera del terrazzamento, davanti al Centro. Il mento aveva una piccola fossetta nella parte mediana e le sue labbra arcuate e carnose attiravano all’amore come una rosa le api. Calici pieni di passione. Calici con cui riempire il vuoto del suo essere al mondo. Alcuni dipendenti cominciavano ad entrare con fretta per il portone principale. Sotto l’architrave, una guardia giurata osservava ed accennava ad un saluto a quelli ch’entravano. Si baciarono. Lungo bacio senza tempo. Lungo bacio che lo spazio ignora. Rimasero che si sarebbero visti il prossimo venerdì. Prima di entrare si girò, la salutò con la mano e si fermò ad osservare l’auto azzurro ferro discendere per le curve a gomito, lungo le ripide pendici del vulcano. Adesso, solo adesso gli parve di risorgere. Prima, la sua vita era stata un semplice prolungamento di quella terrestre. Come una ruota che continua a rotolare lungo la discesa, era stata la sua vita sulla Terra e nei primi mesi dopo la resurrezione – duplicazione. Adesso, c’era lei e l’esistenza aveva per davvero un nuovo colore. Adesso, l’esistenza aveva davvero un senso. Disfece le valige nel suo appartamento; appese gli abiti; si lavò di nuovo la faccia e scese nella sezione cinque. In ascensore, ebbe una illuminazione. Fu certo che la Sindrome da Resurrezione di cui ogni resuscitato era affetto, non era dovuta ad un marginale errore del DNA – gigante. La sindrome indicava il grado di attaccamento alla cose terrene, in particolare ai soldi. Era una derivata dell’inconscio che uno si portava fino alla morte corporale sulla Terra. Manie latenti che emergevano nel mondo post-mortem. Non essendoci i freni sociali della passata vita, i tic ancestrali, le fobie e le manie strane si manifestavano senza gravi pericolosità e conseguenze.
Quando Alterio Giorgio aprì la porta della sezione cinque, trovò Biagio Fiume già in postazione davanti al computer. Gli altri dovevano ancora arrivare. Biagio Fiume controllava per l’ultima volta le foto ed i curriculum da spedire via mail a quelli della Commissione, i cui uffici stavano ai lati della grotta da cui sarebbero spuntati i nuovi resuscitati.
Verso le dieci, si era in trepidazione. La capo sezione aveva premuto il tasto che dava il via al processo di selezione e resurrezione. Il DNA-gigante si era messo in attività. Il colorito della macromolecola gigante si era fatto più denso. La squadra con Amelia Conte in testa era uscita sul terrazzo a osservare i trecento trenta resuscitati fuoriuscire dalla grotta. Biagio Fiume volle declamare: "Il nostro corpo è fatto per circa il 75% da acqua e quella mostruosa molecola che ci duplica lo sa. Il restante materiale che serve per la duplicazione: sali minerali, amine, ioni, li preleva dalle acque profonde che circolano negli anfratti del vulcano e costruisce aminoacidi, proteine, vitamine, grassi ed altro. Il meccanismo di azione della macromolecola è simile a quella che si trova nei cromosomi di ogni essere vivente."
I presenti in silenzio fecero cenno di sì. Non potevano muovere obiezioni. Le vedute scientifiche confermavano le affermazioni di Biagio Fiume. C’erano tre pullman in sosta che aspettavano i resuscitati per portarli in città. La squadra cinque osservava lo spiazzo sottostante coi cannocchiali e i binocoli.I primi a fuoriuscire dal cunicolo della resurrezione furono un paio di uomini che si guardarono intorno, spaesati. A piccoli gruppi uscirono gli altri. Il delegato della Commissione si avvicinò ai resuscitati, stringendo loro la mano in segno di benvenuto. Tutti vestivano gl’indumenti, cioè le copie dei vestiti che avevano posseduto quando erano stati calati in bara. Tutti quindi eleganti. Ad ogni resuscitato, fu appiccicata all’occhiello la relativa foto con funzione di pass; fu consegnato l’incartamento che era un sunto della rispettiva vita terrena. Ogni resuscitato avrebbe dovuto consegnare l’incartamento a quelli della Commissione centrale, appena i pullman fossero arrivati a destinazione. Oltre a incartamento e pass, ogni resuscitato aveva ricevuto la nuova tessera d’identità. Era una scena che si ripeteva quasi identica ad ogni arrivo di resuscitati. Tutti increduli per aver riaperto gli occhi. L’incredulità aumentava quando ricevevano documenti e tessera dalla Commissione. Ognuno infatti si aspettava che l’aldilà fosse diverso, abitato o da santi o da diavoli. Invece, si vedevano resuscitati in una specie di riproduzione della Terra. Alcuni andavano in crisi profonda ed avevano bisogno dello psicologo. Altri dopo lo smarrimento iniziale accettavano per vere tutte le spiegazioni che emissari della Commissione fornivano loro. Alcuni fuoriuscendo dalla grotta osservavano in alto il fungo fumoso che si avvitava in cielo, altri osservavano i pullman parcheggiati lì vicino, altri le persone della Commissione. Altri guardavano qua e là. Si tastavano l’un l’altro per vedere se fosse vero di essere resuscitati anima e corpo; più corpo che anima. Tutti increduli, tutti pieni di domande. Passato lo stress dei primi giorni, ogni resuscitato si sarebbe capacitato del nuovo status.
Alterio Giorgio disse tra sé e sé: "Io dunque sono l’ultraterreno Alterio Giorgio. Credo di essere lui, ma non lo sono. Sono come una specie di pianta parassitaria, vissuta sul suo stampo terreno. Ho alcuni dei suoi ricordi che ritengo mi appartengano. Però io non sono mai vissuto prima di adesso. Sono una copia che un abile scultore ha rifatto per adornare questo pianeta. Sono una copia quasi perfetta di un essere umano di nome Alterio Giorgio vissuto sulla Terra: nato il 16/4/1920 e morto il 27/5/2009."
Poi pensò: se ho una identità precisa in questo determinato momento, allora io sono comunque un essere unico. Ho pieno diritto all’esistenza.
Alterio Giorgio chiese a Biagio Fiume chi fosse l’uomo resuscitato la cui scheda aveva inserito il precedente venerdì in computer. Alterio Giorgio disse che il suo resuscitato avrebbe dovuto chiamarsi Liborio, Liborio Alberto. Biagio Fiume disse che doveva essere quello. Additò un ventenne che stava un po’ in disparte degli altri. Il ventenne morto sulla Terra dopo lungo coma. Osservando col binocolo, Biagio Fiume disse: "Dall’età, dall’aspetto e da come veste, dovrebbe essere quello. Tutto coincide coi dati della scheda."
Alterio Giorgio osservò col binocolo il suo resuscitato e si sentì soddisfatto nel profondo come se gli fosse nato un figlio. Era commosso. Dopo l’evento della propria resurrezione, quando capì di essere di nuovo vivo, Alterio Giorgio si sentì per la seconda volta commosso. Disse solo: "Incredibile."
Alterio Giorgio pensò di essere un duplicato di quello di prima. Ma nel tempo infinito cosa è il prima e cosa il dopo? Ciò che importa è stare sospeso ad assaporare la nuova libertà nelle sensazioni che l’attraversano; tenui sensazioni erranti senza corpo; aria sottile e immota; colori muti a se stanti. Libertà pura. Vita nuova da riscoprire di momento in momento.
Nella sezione metafisica del Centro, reparto di biologia e geotermia dicevano che la vita fosse una specie di corrente continua. Una specie di slancio vitale pervadeva la realtà, una sorta di onda vivente che tende ad organizzarsi tramite micro e macro molecole di DNA. Lo stesso DNA sarebbe una conseguenza dell’onda, una sua emanazione creativa. Il processo di organizzazione che genera vita sarebbe illimitato, ma limitato è il tempo degli organismi viventi.
Sulla Terra secoli prima, Democrito aveva pensato che nell’infinito si danno mondi uguali, nei quali uomini uguali compiono senza una variazione destini uguali.


 

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